Ultime della sera: “Le metamorfosi del lavoro”

La storia umana del lavoro passa attraverso l'evoluzione culturale

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
15 Dicembre 2021 19:00
Ultime della sera: “Le metamorfosi del lavoro”

Il modo attraverso il quale l'attività lavorativa è stata ed è vissuta costituisce un aspetto centrale delle vicende sociali, politiche ed economiche che si succedono nel tempo.

La storia umana del lavoro passa attraverso fasi di privilegio e di degenerazione: causa ed effetto insieme dell'evoluzione culturale.

La storia stessa ci mostra la grande considerazione che, del lavoro, l'uomo aveva nelle epoche preistoriche e diversamente la sua degenerazione nelle culture schiaviste. Risalendo alle civiltà greche e romane troviamo che questi popoli consideravano il lavoro come una punizione, qualcosa di ingrato: la classe sociale più alta non lavorava e tutte le attività lavorative erano affidate principalmente a schiavi e poveri. Il lavoro manuale era considerato stancante e nemico dell'anima.

Il cristianesimo, da connotato servile, fa diventare il lavoro una modalità di espiazione e redenzione dai peccati: viene assunto come valore fondamentale per l'uomo.

Gli eretici, a differenza dei cristiani, fecero del lavoro una condizione di volontaria rinuncia, mentre la scolastica medievale lo vide come una necessità da sopportare.

Con la cultura del rinascimento, l'attività lavorativa, viene messa sulla strada della promozione umana.

L'etica protestante, al contrario, vide il lavoro come dovere dell'uomo, per cui non lavorare veniva considerato deviante ed immorale gratificando invece la professione e la vocazione come servizio divino.

Nel secolo dei "Lumi", Locke riconosce nel lavoro la fonte di ogni proprietà e Smith di ogni ricchezza.

La rivoluzione francese ha collocato formalmente sullo stesso piano l'uomo che lavora e colui che lo paga.

L'800 porta al culmine il processo culturale, ponendo le basi perché il lavoro si trasformasse da concetto morale in obbligazione sociale. E' questa l'epoca di fondazione del concetto moderno di lavoro: essenza dell'uomo e misura del valore.

In seguito alle correnti del socialismo il concetto di lavoro trapassa poi in ideologia.

Nella società industriale sembra non avere più senso parlare del valore lavoro poiché esso corrisponde solo ad un mezzo di guadagno. Man mano che il lavoro diventa un'attività organizzata, si accentua sempre più il concetto di sfruttamento dell'uomo sull'uomo e lavorare è sempre più correlato al produrre. L'uomo stesso condizionato o addirittura dal produttivismo finisce, nonostante le sue intenzioni di dominatore, con l'esserne dominato.

Dietro la spinta dello sviluppo tecnologico, verso la fine del secolo, emergono numerose correnti che si traducono in scuole e movimenti sulla natura del lavoro e sulla natura dell'uomo in rapporto al lavoro.

Taylor con la sua "organizzazione scientifica del lavoro" vede tale attività contro la natura dell'uomo per cui, essendo fondamentale la produzione, l'uomo va costretto a lavorare e controllato.

Il successivo sviluppo economico e sociale conduce l'organizzazione scientifica del lavoro verso nuove prospettive interpretative teorizzate di volta in volta dai maestri del pensiero organizzativo Mayo, Maslow, McGregor, Herzberg, Ansoff, Lorsch, ecc. Si va, infatti, dalla concezione de "l'uomo giusto al posto giusto", per cui l'uomo veniva incasellato nel posto ritenuto idoneo a farlo rendere di più e facendolo al tempo stesso costare di meno, alla concezione di "un posto giusto per l'uomo giusto", per cui viene fatta leva sul principio che il lavoro svolto volentieri sviluppa la vera produttività e quindi concreti vantaggi economici: tale espressione simbolica mette in luce l'atteggiamento paternalistico del sistema industriale nei confronti del soggetto lavoratore. Fino ad arrivare alle concezioni più recenti per cui la cultura lavorativa è fondata non tanto sul lavoro quanto sul "posto" di lavoro, ovvero sull’"impiego".

Il lavoratore, in quanto soggetto sociale, non ha più la capacità di fare da sé, di prendersi cura di sé, di automotivarsi, non ha più la coscienza del proprio sé in rapporto all'ambiente, poiché i suoi diritti e doveri sono regolamentati con tutela contrattuale e legislativa, con possibilità effettive di rappresentanza sindacale. Le caratteristiche dell'occupazione, come "posto" di lavoro, influiscono direttamente anche sui periodi che l'individuo spende prima e dopo di essa: nella socializzazione scolastica (tramite l'occupazione svolta dal padre), nella percezione pensionistica (con le differenze negli schemi e nelle prestazioni previdenziali) e nei momenti di forzato ritiro dal mercato del lavoro (per infortunio, malattia, mobilità, disoccupazione, ecc.).

Gli schemi di Welfare State hanno ridotto il collegamento tra soggetto e realtà, ed è proprio con la crisi di questi schemi che si avverte la necessità di riportare in primo piano forme di collegamento più diretto tra la persona e i suoi progetti.

Riflettendo su queste considerazioni storiche, la prima constatazione spontanea che ci viene di fare è proporre un recupero del significato del lavoro, smarrito durante il suo evolversi, a causa di una vecchia concezione "strumentale" dello stesso.

Oggi, più che in passato siamo in grado di riconoscere con maggiore chiarezza la contraddizione di uno sviluppo limitato della persona, delle sue necessità più profonde, sacrificate per esigenze di pianificazione economica.

Allo stesso modo, non si vuole che il diritto del lavoro venga inteso come un diritto ad un "posto" di lavoro, nel senso che esso è partito come uguaglianza nelle opportunità, ma ciascuno arriva a sentirlo poi come qualcosa di esterno da sé e non come una espressione delle proprie competenze e della capacità di creare valore attraverso la propria opera per la comunità di riferimento.

Il senso del lavoro non sta solo nel fatto che l'uomo produce o dà forma ad oggetti e servizi, ma fondamentalmente nel fatto che l'uomo produce o forma anche sé stesso incrementando la sua umanità, pertanto, lo sviluppo sociale dovrebbe aprirsi e accogliere al suo interno quelle esigenze morali capaci di tutelare il senso umano del lavoro. Tale accezione esprime bene la valenza etica del lavoro: chi lavora può prendere coscienza, agire attraverso l'attività lavorativa sentendosi soggetto consapevole e libero di mettere a frutto le proprie conoscenze. Con la parola "lavoro" viene indicata ogni opera compiuta dall'uomo indipendentemente dalle circostanze. E' un processo creativo, generativo anche nella sua espressione più semplice.

Oltre alla caratterizzazione del lavoro, come agire intrinsecamente umano, vi è connaturata anche quella di un soggetto operante in una comunità di persone; la verifica dei propri significati e dei propri risultati, infatti, la persona, l'effettua sentendo dentro il successo comune, anche la propria autorealizzazione.

Attraverso il lavoro l'uomo sperimenta e contribuisce allo sviluppo sociale (atto di investimento della persona a livello universale) che, quando è per il benessere dell'umanità, ovvero capace di portare benefici a tutti e sostenibile nel tempo, serve a realizzare il valore del "bene comune", principio fondamentale della transizione ecologica e del “siamo tutti connessi” per la costruzione del valore integrale.

tratto da "Outplacement. Perdita del lavoro e riorientamento della carriera" Franco Angeli

di Cinzia ROSSI

La rubrica Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

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