Ieri guardando su Instagram il post del mio amico Luca di Pangea leggo:
“allo stadio di Kabul le donne vengono umiliate e lapidate da uomini che si ergono a giudici. Allo stadio di Genova domenica scorsa, una donna è stata umiliata da maschi che hanno urlato cori ricchi di improperi a sfondo sessuale, ad una ragazza che stava onestamente lavorando. La differenza sta solo nel fatto che i talebani la lapidazione la definiscono giustizia, mentre in Italia la violenza la definiamo goliardia.”
Pur vivendo in un paese occidentale possiamo realmente dire che la condizione della donna oggi sia realmente diversa da quella vissuta in un contesto estremo come quello dell’Afghanistan?
La verità è che non si può definire goliardia quello che il branco riesce a fare proprio in questi momenti in cui si ritrova insieme. Prendiamo ad esempio il cat calling. Questo termine che nasce nei teatri inglesi alla fine del 1800 come fischio di disapprovazione nei confronti degli artisti, oggi è un termine molto usato per definire le vecchie molestie fatte per strada. Ho sempre considerato un limite il fatto di non potermi vestire a mio piacimento per paura di essere fermata per strada.
Il problema è sempre quello del sovvertire una mentalità arcaica che passa dalla libertà di abbigliamento alla possibilità di svolgere il proprio lavoro tranquillamente la domenica allo stadio. Dai cori goliardici al “te la sei cercata” il passo, purtroppo, è breve.
Alcuni anni fa quando scoppiò il movimento “MeToo”, la campagna lanciata dalle donne dello spettacolo in America per denunciare le molestie sessuali, molte donne dissero che era un’esagerazione.
Purtroppo la pandemia con le chiusure continue non ha fatto che peggiorare la situazione.
Oltre al considerevole aumento del numero di violenze domestiche durante i periodi del lockdown, un altro dato sconcertante è quello della disoccupazione femminile. Lo scorso febbraio l’ISTAT pubblicò un rapporto nel quale si affermava che su 110mila disoccupati, 99mila sono donne.
Ma il vero problema ancora oggi nel 2021 è ancora la cultura. Non è solo una questione di trionfo del patriarcato sulla parità di genere ma anche il fatto che la lotta contro gli stereotipi di genere passa soprattutto dalla trasformazione economico sociale.
Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, nel loro ultimo libro scritto a quattro mani “Morgana, l’uomo ricco sono io”, ci dicono che il vero tabù da violare nell’emancipazione è proprio quello di conquistare e gestire il potere del denaro che è stato per anni appannaggio solo degli uomini.
Al là della possibilità di sposare un uomo ricco, per poter gestire denaro proprio molte donne hanno dovuto pagare cara la propria libertà.
Ma la provocazione delle due scrittrici va oltre, ci indicano una strada grafica verso l’inclusione, introducendo per la prima volta in un libro di narrativa italiana, il segno grafico della “schwa”: una e rovesciata, un suono che esiste in molte lingue e dialetti, difficile da leggere ma non da comprendere, un segno vocalico indistinto per evitare qualunque ricorso al maschile o al femminile.
Un segno che serve soprattutto per evitare il maschile dominante, non solo nella lingua ma anche per strada o allo stadio.
di Saveria ALBANESE
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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