“Teatro, amore mio”. “Corruzione al palazzo di giustizia” di Ugo Betti

Fra i testi più importanti del teatro italiano. Rappresentato nel 1949, per la prima volta, al Teatro delle Arti di Roma

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
20 Luglio 2022 10:54
“Teatro, amore mio”. “Corruzione al palazzo di giustizia” di Ugo Betti

“Corruzione al palazzo di giustizia”. E’ un dramma teatrale eccezionale, scritto da Ugo Betti nel 1944 e rappresentato nel 1949, per la prima volta, al Teatro delle Arti in Roma. E’ ritenuto il capolavoro di Ugo Betti, morto a Roma nel 1953 ed è uno fra i testi più significativi del teatro italiano contemporaneo.Nella prefazione leggiamo “L’ambizione di potenza, la lotta senza quartiere per la carriera nell’angusto, soffocante ambiente della burocrazia, l’incertezza morale di uomini avvezzi ad amministrare la giustizia senza più credere in essa, la tragedia della giovinezza innocente travolta in quel clima disumano, l’allucinante vicenda del perverso che alla fine, comprende l’estrema vanità del suo successo crudele: questi gli elementi drammatici che si intrecciano e si scontrano con eccezionale potenza in questo altissimo dramma, colmo di tutte le inquietudini d’oggi e insieme simbolo della nostra crisi morale e dell’inevitabile presenza di Dio”.

In un immaginario, simbolico paese straniero, un certo Ludvi-pol, avventuriero e politicante, viene trovato cadavere in una stanza del palazzo di Giustizia; poiché le circostanze della sua morte non risultano chiare, e l’opinione pubblica sospetta colpevoli rapporti fra la sua morte ed altri fatti delittuosi avvenuti negli stessi giorni, viene aperta un’inchiesta fra il personale del tribunale e persino tra i giudici.Dopo un primo sommario interrogatorio, i sospetti dell’inquisitore paiono concentrarsi sulla figura del vecchio presidente Vanan, il quale, inizialmente, respinge con violenza ogni addebito ma, poco dopo, crolla in una crisi d’amarezza e di sconforto.Grande è lo stupore dei colleghi; solo il giudice Cust, che è il vero colpevole, infierisce sul vecchio nel tentativo di eliminarlo per poterne prendere il posto, ma il suo collega e rivale Croz, che nutre la stessa ambizione, nonostante sappia di essere minato da un male implacabile, controlla attentamente le sue mosse.

Intanto il presidente Vanan, spronato dalla giovane figlia Elena, che crede nell’innocenza del padre, ha faticosamente preparato un memoriale di autodifesa; Elena stessa, dopo qualche giorno porta il plico al palazzo e lo vorrebbe consegnare nelle mani dell’inquisitore, ma Cust, intuendo che nel memoriale ci sono gravi prove contro di lui, glielo sottrae con astuzia, ed opera poi per convincerla della colpevolezza del padre e della generale, inevitabile corruzione degli uomini. Elena per un poco gli resiste ma poi, uscita dall’aula e vinta dallo sconforto, si getta nella tromba dell’ascensore, uccidendosi.

Cust, che si sente padrone della situazione, ha un attimo di debolezza con Croz, il quale, fingendosi morente, gli estorce una mezza confessione e si prepara a smascherarlo pubblicamente quando viene davvero colpito da collasso; allora, per un’estrema beffa ai colleghi e in dispregio di ogni giustizia, morendo si accusa del delitto. Cust viene quindi nominato presidente ma, ora che ha vinto, si sente stremato, lo tormenta il pensiero della ragazza uccisasi, il rimorso di quell’innocenza distrutta non gli dà tregua, alla fine, prostrato, va a confessare i suoi crimini all’ Alto Revisore.Più che i delitti, più che il clima allucinante reso da una successione di scene, tragica è qui la condizione umana dei personaggi.

Si sa che questi uomini sono dei veri ragni, ciò che li regge è appunto una ragnatela di relazioni che essi tessono abilmente“ afferma il giudice Bata, individuando una condizione essenziale della vita sociale e politica. Ma appena la ragnatela viene infranta, come all’inizio del primo atto, coll’arrivo dell’inquisitore, e tutti si trovano in pericolo, essi reagiscono con una violenza proporzionata soltanto alla paura che hanno. Cercano di salvare il salvabile cioè i loro interessi e la carriera, dimostrando in tal modo che una professione così nobile ed un’esperienza di vita così grande non hanno conferito loro alcuna nobiltà o grandezza e che, nonostante le cariche e le dignità formali, essi sono rimasti sostanzialmente dei miserabili.

Della tragedia c’è stata una versione cinematografica del 1974 diretta da Marcello Aliprandi e con protagonista Franco Nero (vedi foto di scena).

Salvatore Giacalone

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