“Una punta di Sal”. Caso Denise, Matteo Messina Denaro se sai parla!

Gli investigatori devono spiegare se sul rapimento di Denise Pipitone c’è stata l’ombra del boss per 30 anni latitante

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
29 Gennaio 2023 10:01
“Una punta di Sal”. Caso Denise, Matteo Messina Denaro se sai parla!

Subito dopo la clamorosa cattura del boss latitante Matteo Messina Denaro, Piera Maggio e Piero Pulizzi i genitori di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo il 1° settembre del 2004, hanno scritto un appello allo stato Italiano e ai magistrati diffuso tramite il loro canale facebook, in cui si legge: “Ci appelliamo a dei sentimenti forse assopiti, al vero senso dell’essere un genitore amorevole. Stato, magistrati, chiedete al boss Matteo Messina Denaro, se sa dov’è la nostra Denise.

Noi siamo convinti che se decidesse di fornire la risposta alla nostra domanda, metterebbe fine al nostro calvario”. Nel periodo in cui Denise scomparve da Mazara del Vallo, Messina Denaro era un capomafia della zona del trapanese, e in passato durante le indagini sono state anche percorse delle piste mafiose. La speranza che si possano avere nuove informazioni e che si possa arrivare ad una svolta, o una verità in più è ancora tanta e viva nel cuore dei genitori e di chi da tanti anni segue la vicenda.

Gli investigatori devono spiegare se sul rapimento della piccola Denise Pipitone c’è l’ombra del boss Matteo Messina Denaro oppure se si tratta di un sequestro circoscritto alle sole persone della famiglia. Devono spiegarlo, perché è da diciassette anni – da quando, l’1 settembre 2004, la bambina è scomparsa mentre giocava davanti a casa sua - che sentiamo la solita tiritera: “Chi ha visto parli”. Sì, certo, “chi ha visto parli”. Dirlo da uno studio televisivo da Roma o da Milano è un conto.

Attuarlo in Sicilia è un altro.Una cosa deve essere chiara: l’omertà non è una sindrome insita nei siciliani per questioni genetiche. È figlia della paura. Che è un sentimento umano: esiste in Sicilia come in Svezia, negli Stati Uniti come in ogni angolo sperduto del mondo. Solo che in Sicilia, da secoli, esiste un fenomeno che si chiama mafia, e quindi la paura, oltre ad essere un fatto immanente, è uno stato d’animo ancestrale che si trasmette di generazione in generazione. Non è facile spiegare.

Chi pronuncia la fatidica frase “Chi sa parli”, dovrebbe prima rispondere a una semplice domanda: “se si assiste a un omicidio, a un sequestro di persona o a una richiesta di “pizzo” di cui la matrice (o magari la cointeressenza, o al limite la complicità) è mafiosa, come agire? Probabilmente si risponderà senza esitazione: “Io parlo”. Certo. Ma se l’assassino, il sequestratore o l’estortore minacciano di uccidere il figlio che si fa? E se le istituzioni che hanno il compito di proteggere l’incolumità della persona e quella della sua famiglia, non riescono a scoprire il colpevole o i colpevoli, si è ancora dell’idea che bisogna parlare “senza se e senza ma”?

La Sicilia ha pagato un tributo di sangue troppo alto. Troppi innocenti sono morti perché ritenuti “colpevoli” di aver visto qualcosa, di aver partecipato a qualcosa, di essere stati presenti casualmente a qualcosa, o di non aver pagato qualcosa a qualcuno. Una storia che forse non tutti conoscono può chiarire il concetto. Giuseppe Letizia era un pastorello di otto anni che nella Corleone truce e violenta degli anni Cinquanta fu testimone del delitto del sindacalista Placido Rizzotto, che dopo essere stato ucciso, fu scaraventato dal costone roccioso di Rocca Busambra da Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Giuseppe che assistette alla scena, fu preso, portato all’ospedale di Corleone, dove era medico Michele Navarra, sindaco e boss del paese, il quale gli praticò una iniezione di veleno per cancellarlo dalla faccia della terra, in modo da eliminare una testimonianza fondamentale come quella del piccolo pastore. L’allora capitano dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa fece un rapporto in cui ricostruì in modo dettagliato tutta la vicenda, ma al processo gli assassini di Placido Rizzotto e di Giuseppe Letizia se la cavarono con un’insufficienza di prove.

Di storie come queste, in Sicilia, se ne contano tante. Per non parlare delle industrie saltate in aria, incendiate, distrutte, solo perché il titolare non si piegava alla logica del “pizzo”. Addirittura un imprenditore come Libero Grassi, negli anni Novanta del secolo scorso, fu ucciso per questo. Ci sono volute le stragi di Capaci e di via D’Amelio per indurre lo Stato a proteggere in modo più efficace rispetto al passato le vittime delle estorsioni. E si vede, se consideriamo che da qualche anno le denunce contro il racket sono aumentate. 

Nel caso della piccola Denise, lo Stato come si è comportato? Un conto è gridare allo scandalo di fronte a una città che assiste passivamente al sequestro di una bambina prelevata da persone “comuni”, un altro è quando nella vicenda – secondo quanto è stato dichiarato a Chi l’ha visto?- potrebbe esserci stata la partecipazione di qualche elemento vicino a Cosa nostra. Se è vero gli inquirenti hanno il dovere di spiegare. Se non è vero hanno il dovere di smentirlo. E allora va ribaltato il ragionamento: lo Stato deve far sentire la sua presenza anche in questa propaggine dell’Italia del Sud, proteggendo i testimoni, facendo sentire la sua vicinanza all’intera città, trasmettendo il messaggio che a comandare non è Matteo Messina Denaro, ma le istituzioni democratiche. Solo così sarà possibile ricostruire pienamente la verità su Denise che sicuramente non si è volatilizzata.

Salvatore Giacalone

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