Ultime della sera: “Se una sera d’inverno all’improvviso…”

Se l’altro fossi io: Riflessioni in tempo di guerra

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
05 Marzo 2022 18:30
Ultime della sera: “Se una sera d’inverno all’improvviso…”

Mia madre srotolava un vecchio plaid a quadri, tutto circondato di frange, e lo stendeva sul pavimento. Quel vecchio plaid, in alcuni beati momenti della giornata, era il mio mondo. Vi si accomodavano, insieme a me, le Piccole donne, Gulliver e i lillipuziani, Pollyanna, la maestrina dalla penna rossa di Cuore, Tom Sawyer e i Ragazzi della Via Pal, Oliver Twist, Sherazade e Aladino...

Poi ogni tanto ospitavo mio fratello con i cubi, le costruzioni, i libri di animali e il fortino dei soldati.

Era un bel fortino di legno, con le torrette d'avvistamento e un portone che si chiudeva dall'interno con un chiavistello. Sulla torre sventolava una bandiera a stelle e strisce. C'era poi un piccolo accampamento di indiani, con un totem e un paio di tende tapee. Il gioco consisteva prima nel sistemare i soldatini strategicamente dentro il fortino e gli indiani poco lontani e poi nell'aprire il combattimento. I pupazzetti erano statici, avevano delle forme immodificabili sicché, sia quando vincevano che quando perdevano, rimanevano nella stessa posa, imbracciando un fucile o nell'atto di scoccare una freccia, con le braccia in alto o con le gambe divaricate nell'atto di cavalcare.

Di volta in volta si decideva chi dovesse vincere, così una volta erano gli indiani ad impadronirsi del fortino e la volta successiva erano i soldati a distruggere l'accampamento. Fra i pupazzetti, non c'erano donne, bambini o vecchi. L'entusiasmo della vittoria durava pochi secondi. Spesso introducevamo delle variabili: la più frequente era quella che prevedeva che indiani e soldati diventassero amici e creassero delle squadre miste per giocare a calcio, oppure a tiro a segno. E comunque, la cosa più straordinaria era che se anche fossero morti in combattimento, quei soldati e quegli indiani, una volta riposti nella scatola, sarebbero tornati a vivere, pronti a giocare ancora.

Credo sia stato quello il mio primo approccio all'idea di guerra. Ne avevo sentito parlare nei racconti di mia madre e dei suoi fratelli più grandi: la condizione di sfollati, la condivisione di spazi esigui e di poco cibo, la paura, l'obbligo al silenzio... a scuola iniziai in terza elementare a studiare la storia che è soprattutto storia di conflitti, storia di guerre.

La pace non fa notizia. Le pagine dei libri di storia dedicate ai periodi di pace, erano, e credo che ancora lo siano, poche e sbrigative.

Ci insegnavano che dalla storia si impara: “historia magistra vitae est” ripeteva la professoressa Sammartano, “e seppure non la si possa cambiare, la si può comprendere . E se la si comprende, se se ne comprendono le cause e le conseguenze, si può evitare di commettere gli stessi errori.” Affascinanti fandonie.

Non abbiamo imparato niente. La guerra la armano i potenti, la combattono gli innocenti, e la subisce l'umanità. In qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, non è cambiato il gioco perverso del potere.

E le vittime non tornano nelle scatole a riposarsi come i pupazzetti, ma restano a pezzi sulle strade, nelle case, nelle scuole come nei carrI armati o sugli aerei. E chi sopravvive, a pezzi avrà il cuore, per sempre.

La pace e la guerra iniziano dentro di noi, nelle nostre case, nelle nostre relazioni, nel nostro modo di stare al mondo, e probabilmente in questo momento qualcuno di noi che è turbato da ciò che sta accadendo e invoca un accordo che blocchi la guerra, non sa fare pace con un proprio familiare, con un collega o con un vicino di casa, non sa trovare un modo di entrare in relazione con gli altri, che non sia aggressivo, violento o prepotente, o per fare valere le proprie ragioni, pure talvolta legittime, non si fa scrupolo di annientare un’altra persona, mortificandola, affamandola, rendendola ridicola.

Non è improbabile che fra coloro che pubblicano dei post invocando la pace e sventolano bandiere arcobaleno, ci sia qualcuno che per un posto di comando, per una rivalsa personale, per vendicare un torto, stia imbracciando le armi dell’offesa, del vilipendio, della squalifica, dell’isolamento verso un altro che sta dall’altra parte, oltre la linea immaginaria del tuo e del mio. È sempre più facile invitare gli altri a fare qualcosa che noi non abbiamo voglia di fare.

E’ vero però che essere in pace con se stessi e con gli altri, non è sufficiente ad evitare la guerra. E c’è solo un modo per capire davvero cosa si provi in tutte le situazioni drammatiche e, in questo momento, in uno scenario di guerra. E questo modo prevede che io sia l’altro.

Sono a casa mia, ho il mio lavoro, la mia vita, la mia famiglia, le mie preoccupazioni, i miei desideri, i miei progetti, i miei amori, le mie passioni, i miei ideali e…una sera d’inverno, improvvisamente, una esplosione devasta il mio mondo, una catastrofe voluta da qualcuno fuori di me, sconvolge il mio rassicurante plaid a quadri con le frange. E, se resto viva, devo scappare senza portarmi dietro altro che la mia disperata speranza, senza cibo, acqua, denaro, carburante…senza nessuna delle certezze che ho avuto fino ad ora, attraversando fuoco e dolore, facendomi spazio fra brandelli di fratelli e sorelle di ogni età, che non ce l’hanno fatta…. E sono madre, padre, bambino e bambina, giovane studente, ballerina di strada, giornalista, vecchia ammalata, paziente oncologica, infermiere, netturbino, scienziata, pittrice, barista, neonato, soldato spaventato… E cerco un segno, che mi dia il senso.

Non so come, raggiungo il confine (se lo raggiungo), anche questo su una linea immaginaria segnata a sua volta, un tempo, da guerre e trattati. Dall’altra parte, una mano tesa, una boccia d’acqua, un pasto caldo, una coperta, una benda, forse una strada che mi condurrà ad una casa. E penso che sia questo il segno, questa umanità che non si arrende, questi fiori di una fredda primavera che si ostinano a crescere fra le macerie, queste voci che chiedono giustizia e si levano da tutti i paesi, queste mani che seppelliscono i morti, queste croci che indicano il cielo e abbracciano il mondo, questi sopravvissuti che portano fiori davanti alle ambasciate, questi bambini che disegnano arcobaleni, quest’uomo vestito di bianco che tende la mano a uomini vestiti di nero e insieme a loro non si stanca di pregare, queste campane a distesa che confortano l’aria...

Sono io l’altro, e ho bisogno di altri me.

E mentre raccatto i pezzi del mio vecchio plaid, innalzo il mio canto con voce spezzata.

“O Signore,

fa’ di me uno strumento della tua pace…”

di Maria LISMA

La rubrica Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

Per contatti, suggerimenti, articoli e altro scrivete a: amicidipenna2020@gmail.com

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