Ultime della sera: “San Pietro e i santi patroni”

Tradizioni del sud est della Sicilia

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
29 Giugno 2022 18:40
Ultime della sera: “San Pietro e i santi patroni”

C’è chi ci definisce come “popolo di santi e di eroi”. Non è solo vero in un certo senso. Per quel che riguarda noi siciliani è del tutto vero. Ci circondiamo di figure di riferimento forti e a loro facciamo appello ogni volta che gli eventi ce lo richiedono. Ne raccontiamo le gesta ed i martiri nel tentativo di scongiurare situazioni che in qualche modo scalfiscono le nostre esistenze. Definire i ragusani san giuvannari o pensare agli scichilitani come scichilimemma o i modicani come sanpitrari o sangiuggiari ci dà la misura del legame viscerale che si annoda tra la cittadinanza e il suo santo di riferimento che ne diventa il simbolo.

Questo è particolarmente evidente per città come Siracusa, Catania, e Palermo, in cui, peraltro, le donne – sante la fanno, è proprio il caso di dirlo, da “patrone”. Santa Lucia, sant’Agata, santa Rosalia, sono, non a caso, fra i nomi di battesimo maggiormente ricorrenti. Guardando al sud est della Sicilia, la pratica devozionale si sostanzia anche di aspetti politico-sociali. Nei lunghi secoli che hanno preceduto l'unità del paese, la Chiesa è stata l'unico potere, non straniero, che ha rappresentato, soprattutto fra i ceti popolari, il tratto identitario effettivamente comune.

Afferma Marino Niola, antropologo, studioso e autore di numerose pubblicazioni: “Il culto per la Madonna, il cui patronato è di gran lunga il più diffuso, per i protomartiri cristiani, per i primi santi vescovi ha finito con il conferire loro il ruolo di taumaturgici "defensor civitatis", facendone al tempo stesso i depositari di consuetudini e memoria”. Accade così anche per San Pietro in Modica a cui fa capo una numerosissima schiera di devoti. 

Oggi i festeggiamenti sono minimali ma nella memoria di molti rimane indelebile il ricordo di un fasto il cui aspetto più importante era la spettacolarizzazione. Nella ricostruzione descritta da Serafino Amabile Guastella, la processione era aperta da 12 enormi fantocci di cartapesta capitanati da quello che rappresentava Cristo. Ma tra gli aspetti della festa ancora qualcuno ricorda la pratica del “Commauro”. A parlarcene con cognizione è lo studioso Pierantonio Calabrese. “Dobbiamo alla famiglia Cochi, una famiglia che si industriava in mille mestieri tra cui quello di accordare pianoforti e organi nelle chiese, la pratica del Commauro. Era questa una manifestazione visiva che si serviva del fuoco per rendere spettacolare una parte della festa.

Su un fianco della collina di Monserrato venivano posizionati centinaia lumini costruiti con gusci di “barbaini” (lumache) al cui interno era sistemato un batuffolo intriso di olio e poi uno stoppino che veniva acceso la sera della festa. il Commauro aveva la forma di una testa che doveva ricordare il capo di San Pietro. L’immagine ardeva per tre o quattro ore sul fianco della collina ed era visibile da ogni parte della città. Oggi non è più possibile rinvenire con precisione il perimetro definito del Commauro ma alcune postazioni sono ancora evidenti.

L’accensione del Commauro era in sé una festa, e contribuiva, insieme o juocu fuocu, ad infondere in chi osservava meraviglia e partecipazione emotiva. L’ultima volta che ho visto il Commauro è stato nell’immediato dopoguerra. In quella occasione uscirono anche per l’ultima volta i santoni. A concludere la festa era a “sbummiata” che seguiva l’esecuzione delle due bande musicali. In genere le bande erano due: una quella di Modica e una che veniva da fuori. Ma a mezzanotte in punto si sospendevano le esecuzioni e si assisteva ai giochi pirotecnici che partivano da Monserrato. Immediatamente dopo u juocu fuocu si era soliti partire a piedi per la stagione balneare.

I più fortunati con il carretto altri a piedi. I ricchi andavano l’indomani con le auto. Il piatto tradizionale legato alla festa di San Pietro era a Tunnina. Ma anche in questo caso la pietanza distingueva il ceto di appartenenza. I più ricchi mangiavano a tunnina con la cipolla, la prenotavano qualche giorno prima e la compravano al mattino presto, sicuri così che non andava a male. I tirchi la compravano dopo l’una, tanto che, un detto, ancora oggi, per dare dello spilorcio ad una persona dice: “quello aspetta l’una”.

I meno abbienti mangiavano “a surra” che si cucinava a ghiotta con un condimento di peperoni, cipolle e patate. La Surra era la parte grassa del tonno, certamente più gustosa ma meno raffinata”. Certamente, Modica, città del gelato, aveva la sua tradizione. Con il signor Iacono, custode della memoria dell’antica gelateria modicana scopriamo quali erano le abitudini dei modicani in fatto di gelateria. “sul finire degli anni ’50, lavoravo al caffè Orientale, in laboratorio, il gelato più ambito era il pezzo duro: torrone, nocciola e cioccolato, costava intorno a 25 lire.

Il gelato preferito dalla gente più benestante era lo spumone di caffè”.

di Marcella BURDERI

La rubrica Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

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