di Grazia GIOGLIO Oggi è il Dantedì, un giorno in cui vengono realizzate attività e organizzate iniziative di vario genere che celebrano il nostro sommo poeta Dante Alighieri e le sue opere. Quest’anno è particolarmente importante in quanto ricorre l’anniversario della sua morte avvenuta proprio 700 anni fa a Ravenna, il 14 settembre del 1321. Certamente un ruolo centrale, tra tutte le sue opere, riveste la Divina Commedia, il suo capolavoro, un poema allegorico-didascalico in terzine di endecasillabi, nel quale Dante ci racconta il suo viaggio nel mondo ultraterreno, nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, viaggio attraverso il quale dallo smarrimento iniziale giunge alla salvezza e alla visione di Dio.
Numerose sono le anime che incontra nel suo percorso e tra tante, tutte affascinanti per le loro storie, mi sembra interessante la figura di Manfredi, il figlio dell’imperatore Federico II di Svevia, morto nel 1266 nella battaglia di Benevento. Dante ce lo presenta nel canto III del Purgatorio tra le anime degli scomunicati dalla Chiesa. ”Biondo era, bello e di gentile aspetto” ci racconta il sommo poeta nei suoi versi e ci riferisce che Manfredi, nonostante si fosse macchiato di gravi colpe nella vita, era riuscito a salvarsi perché si era arreso “a Quei che volentier perdona”.
Parole commoventi le sue in quanto il verbo arrendersi, “mi rendei” dice lui, sa di abbandono fiducioso in Dio la cui bontà, come dirà subito dopo,”ha sì gran braccia che prende ciò che si rivolge a lei”. Quest’amore misericordioso di Dio però proprio dagli uomini di chiesa non era stato riconosciuto tanto che avevano disseppellito le sue ossa e le avevano disperse al di fuori del regno di Napoli. Se il vescovo e il pontefice di allora avessero compreso il “vero volto” di Dio, non avrebbero agito in quel modo.
Manfredi era un uomo scomunicato, lo ammette dicendo “orribil furon li peccati miei”, ma l’avere capito, anche se tardi, la sua miseria umana lo avvicina a Dio. Certamente la “giustizia” deve fare il suo corso, per gli errori commessi Manfredi dovrà percorrere il Purgatorio, ma la meta, il Paradiso non è precluso. Toccanti i versi in cui si preoccupa con amore paterno di fare sapere alla figlia che è salvo e che ha bisogno delle sue preghiere per poter affrettare il suo ingresso nel Paradiso.
Una dolcezza infinita è quella che emerge dal testo. Non c’è la superbia, l’orgoglio di un re ma la tenerezza di un padre, il rammarico per gli ecclesiastici che, pur essendo esperti della Parola di Dio, ancora non l’avevano vissuta, e la serenità di chi è stato perdonato. Questo canto forse potrebbe farci riflettere sul fatto che quando abbassiamo le nostre “difese” e riconosciamo con umiltà le nostre fragilità, proprio allora incontriamo Dio e la sua immagine che, come si dice nelle Scritture, è impressa in noi, può nuovamente risplendere.
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna. Per contatti, suggerimenti, articoli e altro scrivete a: amicidipenna2020@gmail.com