Ultime della sera: “La vendemmia”

Ricordi di famiglia

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
04 Febbraio 2022 18:30
Ultime della sera: “La vendemmia”

Per quelli della mia generazione, la scuola iniziava il primo ottobre e settembre era il mese della vendemmia. Con le cantine di ammasso d’uva in città tutti vivevamo o subivamo la vendemmia, la popolazione contadina era numerosa e per l’occasione, si aggiungevano vendemmiatori “iurnateri” e ragazzi che, non ancora impegnati a scuola, avevano voglia di guadagnare qualche soldo.

I ritmi di vita della mia famiglia erano scanditi a fine estate dalla vendemmia. Mio nonno Peppino, conosciuto dai più come Pippinu Addru, lavoratore instancabile e con l’indole dell’imprenditore, negli anni era diventato proprietario di terreni e commerciante di vino. Restavamo nella casa di campagna alla “Banna” sino a raccolta conclusa, mia madre preparava pentoloni di “ghiotta”, di salsa con patate, cucinava sacconi di “tubbittuna” e a mezzogiorno apparecchiava con piatti fondi che somigliavano a delle insalatiere.

Il nonno e il fidato Don Vittorio, un contadino dal dialetto incomprensibile di Mezzojuso, aspettavano il momento propizio per ottenere il massimo dalle fatiche di un anno di duro lavoro e scongiurare che l’arrivo della pioggia potesse rovinare "il grado" sperato dell’uva. Tutta la famiglia era mobilitata, mio padre pur occupato in altro settore, la sera finito il suo lavoro andava a dare una mano in magazzino. Arrivavano i camionisti delle campagne limitrofe e scaricavano l’uva, pesando i camion carichi sul "bilico", una sorta di pavimento-bilancia ondeggiante.

L’uva veniva versata in una fossa di cemento per essere macinata e produrre mosto e vinaccia alle due estremità; una enorme vite rotante aveva sostituito il “palimentu”, la piattaforma su cui i contadini pestavano l’uva. I camion venivano ripesati all’uscita e mio nonno segnava su un quadernetto malconcio la quantità di uva consegnata. Questo magazzino esercitava su noi bambine un fascino maldestro, vuoi per il brivido di attraversare il “bilico” tra un camion e l’altro, o forse perché ci nascondevamo tra quegli enormi silos, stordite dal forte odore di mosto, o per quell’atmosfera laboriosa in cui, nonostante l’ora tarda, nessuno lamentava il peso della giornata.

Ad un certo punto l’incantesimo si rompeva e al grido di Don Vittorio “Picciriddiii !!!” dovevamo sgombrare il campo e così su per la scaletta di ferro, di corsa, andavamo a ripararci a casa della anziana nonna Rosa.

Tornati in città, la vendemmia cambiava connotati. Vivendo nei pressi della cantina di via Franco Maccagnone, attratte dalla colonna di camion e trattori caracollanti stracolmi di uva, mia sorella ed io trascorrevamo tanto tempo al balcone e intanto, la casa si riempiva di odiose folate di "muschitte", del caldo afoso e appiccicaticcio di settembre intriso di odore di mosto.

Altra storia invece, quando andavamo dal nonno Battista nella sua “campagneddra”, un piccolo appezzamento di terreno acquistato con i risparmi di una vita. Mio nonno Battista, persona integerrima e tutto per la famiglia, aveva deciso di dedicarsi l’attività di coltivatore una volta andato in pensione. Il piccolo vigneto era il suo orgoglio e a settembre inoltrato, procedeva alla raccolta. Ammassata la piccola quantità di uva, pur senza nessuna competenza, ogni anno si ostinava a produrre il suo vino.

C’erano due paia di stivali e noi bambini tra grida delle mamme, risa e schizzi, per qualche momento avevamo il permesso di pestare l’uva; mia nonna Angela, mai osando contraddire il suo amato compagno di una vita, finiva il lavoro con il passapomodori manuale e la macchinetta usata per fare la salsa. Dall’uva, prevalentemente “riddru” veniva fuori un liquido giallognolo, torbido e per niente attraente che, gli zii per affetto ed educazione sorseggiavano durante i pranzi domenicali, commentando puntualmente che l’anno precedente il vino era venuto meglio e che sicuramente la pioggia dei giorni precedenti aveva rovinato il sapore; il nonno Battista era soddisfatto e ogni anno si ripeteva il rito.

Quello che è cambiato per la maggior parte dei giovani oggi è il contatto con il ciclo della natura e su come si producono gli alimenti. Per la stragrande maggioranza dei ragazzi, il vino è un’etichetta, un calice in cui annusare improbabili sentori di ciliegio, di pesca, a caccia di un tappo che ha rilasciato la sua essenza e non ha fatto il suo dovere. Resta sempre, per fortuna, la capacità del vino di aggregare allegramente più persone intorno ad un bicchiere.

di Angela ASARO

La rubrica Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

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