C’era una volta un re: Hyblon lo chiama Tucidide riferendo le vicende della guerra del Peloponneso. Pare dimorasse nel cuore dei Monti da cui traggono il nome. Storia? Leggenda? Fatto sta che la terra di cui narriamo la splendida bellezza porta il suo nome. L’altopiano degli Iblei. Alti monti tra cui emerge sua maestà Monte Lauro e un massiccio tavolato in cui scorrono quattro principali fiumi: l’Anapo, l’Irminio, il Tellaro, il Dirillo pazienti scultori del paesaggio, incisori e intagliatori della terra che hanno modellato la roccia e la pietra al loro passaggio scavando profonde valli che da noi si chiamano “cave”, reticolo di vene che sprofondano in una naturale implosione.
L’altopiano ibleo è un luogo dai mille colori, dove splende l’oro del grano, il rosso dell’uva, il verde bruno del carrubo e l ’argento dell’ulivo. E la nota che risuona più alta nel cuore dei questo luogo è il suo magico silenzio. Impera ovunque. Nelle cave e nelle cime. Si tratta di un silenzio apparente, ingannevole. Da lontano senti lo scrosciare delle acque e capisci che è la voce della terra, roccia e acqua, voce della natura che racconta la sua storia. Non puoi far altro che ascoltare. Ti racconta il passaggio delle tracce delle civiltà passate.
Ti disvela i luoghi in cui proprio l’acqua nella terra è stata la ragione della possibilità di ogni inizio. La “regione” iblea, grazie alla ricchezza di sorgenti d’acqua, fu culla di siti naturalmente fortificati. Per questa regione fu abitata ininterrottamente sin dall’età preistorica. Siculi, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, trovarono qui le condizioni migliori per la propria sussistenza. La testimonianza più evidente, più conosciuta e certamente non l’unica è la grande area di Cava Ispica.
Non dimentichiamo però il riparo sotto roccia della Fontana Nuova, presso Marina di Ragusa, Cava dei Servi, Cava Gisana, Conca a Grotta del Salto, Cava Celone, Cava Santa Domenica, Cava della Misericordia, Cava Volpe, Cava del Paradiso, Cava Grande e poi gli ipogei, tra tutti quello di Calaforno. Le cave sono luoghi elettivi della civiltà iblea con le loro grotte a volte rifugi a volte luoghi da cui fuggire perché infestati da demoni; con i loro alberi da frutto, generosi e carichi: melograni, loti, noci, mandorle in tale abbondanza che ti basta stendere la mano per raccoglierli.
Le cave, generose e accoglienti con i loro segreti mai svelati, a volte profanate a volte protette a ricordo e testimonianza per le future generazioni, sede elettiva dei misteri; e fra i misteri quello più inquietante, quello originario della vita e della morte. Nelle cave, dove morte e vita misteriosamente si uniscono, l’acqua porta la vita ed elegge la “terra” come madre comune. Lì la caverna diventa una sorta di utero dove proteggersi dal freddo, dagli animali e dove la vita germina e finisce.
L’impianto architettonico è di una semplicità disarmante, ma al tempo stesso solido e capace di contrastare gli eventi naturali e le catastrofi. Qui sono vissute comunità di uomini fino alla prima metà del ‘900. Qui si è praticata e tramandata l’arte dello scavare e incidere la roccia per ricavare gli ambienti domestici, secondo il principio che si può solo sottrarre e ciò che è tolto non può essere sostituito. Della caverna, la roccia non è l’unica materia essenziale. Basta scivolare all’interno e attendere.
Prima un’oscurità discreta poi, man mano che l’occhio si abitua, ecco svelarsi gli angoli nascosti dell’ambiente. La luce diventa materia fondamentale, ne condiziona il posizionamento. Nella caverna la luce può solo entrare, e sempre da un solo lato. E allora bisogna sfruttarne la resa quanto più a lungo possibile. Ecco perché le cave degli Iblei sono esposte tutte a favore di luce. Terra, acqua e ingegno umano dunque sono i tre fattori che incidono e modificano questo lembo di terra.
A volte sono stati la forza l’uno dell’altro. Si sono spalleggiati combattendo l’uno a fianco dell’altro, da veri alleati. Altre volte al contrario sono stati nemici l’uno contro l’altro lasciando spazio libero alla forza violenta e distruttiva della natura, che ha scatenato morte e desolazione. È il caso dell’alluvione del 1902 o dei numerosi terremoti che si sono succeduti. Catastrofi che rimangono nella memoria della pietra, della terra e della gente. Ma da ogni tragedia questa terra è fiorita più consapevole di prima.
Consapevole della sua bellezza e della sua fragilità. Consapevole della responsabilità che nelle mani dell’uomo è consegnato un ecosistema bellissimo, delicato e unico.
di Marcella BURDERI
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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