Ultime della sera. Gianfranco Zavalloni, maestro

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
30 Aprile 2020 19:34
Ultime della sera. Gianfranco Zavalloni, maestro

Ho conosciuto Gianfranco Zavalloni all’inizio del 1997 quando ero incaricato per la regione Sicilia del Settore PNS (Pace Nonviolenza e Solidarietà dell’AGESCI), infatti gli incaricati delle varie regioni italiane partecipavano agli incontri della pattuglia nazionale con a capo Gianfranco Zavalloni. Ricordo che faceva parte di quel gruppo dei cosiddetti “impallinati della pace” anche Edo Patriarca che era il Presidente Nazionale dell’AGESCI e Maria Letizia Celotti che assieme ad Attilio Favilla erano stati Capo Scout e Capo Guida d’Italia quando io adolescente entrai nel gruppo scout Mazara del Vallo 1° e conservo ancora gelosamente le loro firme nella mia vecchia tessera scout.

Sono stati anni bellissimi perché l’impegno dell’educazione alla pace mi ha portato in tanti luoghi sia in Italia che all’Estero dove ho conosciute tante belle persone, e una di queste belle persone è stato proprio Gianfranco Zavalloni che purtroppo solo qualche mese fa ho scoperto parlando con un amico comune che ci aveva lasciato nel 2012, a soli cinquantaquattro anni per un male incurabile. Ma chi era Gianfranco Zavalloni? Provo nel ricordo a delinearne la figura: Gianfranco è stato sicuramente uno dei più validi educatori del nostro paese, è stato dirigente scolastico, ma soprattutto maestro di scuola materna; e ancora: disegnatore, calligrafo, attore, creatore di burattini, animatore dell’Ecoistituto di Cesena, straordinario sperimentatore di una educazione nonviolenta, ecologica e creativa.

Gianfranco Zavalloni ha praticato e teorizzato una scuola analogica: lenta, non competitiva, alla riscoperta della manualità e del contatto con la terra. In una comunicazione mandata ad un convegno al quale non aveva potuto partecipare raccontava così, con la sua straordinaria umanità, la sua malattia: “Amo le fiabe, amo i burattini. Nei 33 anni di esperienza da educatore, maestro e dirigente scolastico la passione per fiabe e burattini è stata una costante. E anche oggi, dall'alto di un boccascena del teatro dei burattini, se chiedessi a bimbi e bimbe qual è la storia che desiderano vedere, il 99% delle risposte (ne sono sicuro) sarebbe «Cappuccetto Rosso!!».

Evidentemente c'è qualcosa di universale. C'è un momento della fiaba (nella mia versione burattinesca) che mi affascina particolarmente. È il momento in cui il lupo, dopo aver divorato la nonna e Cappuccetto Rosso, si concede un meritato riposo. A quel punto il cacciatore, dopo aver aperto la pancia al lupo e fatte uscire le malcapitate, con l'aiuto dei bambini riempie di sassi la pancia del lupo per poi ricucirla. Al risveglio il lupo, con la pancia appesantita dai sassi, viene investito dal vociare dei bambini che gli evidenziano la realtà: la pancia è piena di sassi.

Ma lui non crede a queste «frottole» e pensa che sia una semplice indigestione, pesantezza di carne umana, ingerita voracemente senza masticare. Ebbene quel lupo, il 18 ottobre scorso, improvvisamente, ero io. Pensando ad una possibile indigestione, dopo una notte passata con un doloroso mal di pancia, mi sono recato ad uno dei pronto soccorso di Belo Horizonte. E dopo diverse ore, con la pancia piena d'acqua per favorire l'esame, mi sono sottoposto ad una ecografia.

L'esito è stato immediato: qui ci sono un po' di sassi da togliere, ha sentenziato il medico chirurgo. Così, come il lupo contesta i bimbi e le bimbe rispondendo loro «...non è vero, non è vero, state scherzando, mi prendete in giro!!», così anch'io non volevo crederci. E dentro di me pensavo: «si sono sbagliati, la diagnosi è inesatta!». Ma la realtà a volte è cruda. Dopo poco più di un mese, il 2 dicembre, sono entrato (come il lupo poi entra nel pozzo per bere) in una sala operatoria dell'Ospedale S.

Orsola di Bologna. Tre chirurghi e una schiera di collaboratori hanno lavorato per 9 ore e mezza per togliere dalla mia pancia tutti i sassi grossi (un rene, il surrene, una enorme massa tumorale, un trombo formatosi nella vena cava...). Sono restati tanti piccoli sassolini sparsi qua e là. Ma questa è già la storia di Pollicino oppure quella di Hansel e Gretel”. La morte infatti è uno dei temi de “La pedagogia della lumaca”, l'opera più importante di Gianfranco Zavalloni, ed è una cosa che può sorprendere, in un libro che è una esaltazione della gioia di educare, che viene dalla gioia di vivere.

In questo periodo di Coronavirus dove la morte, penso e spero, sia stata rivalutata, ci ritorna molto utile rileggere questo suo libro che non trovandolo più nella mia libreria, sicuramente per averlo regalato a qualcuno, l’ho subito ricomprato alla EMI. Il tema della morte in un libro di pedagogia si capisce solo se uno ha realmente conosciuto Gianfranco Zavalloni e le sue origini contadine, ed il suo esser rimasto fino alla fine un uomo della campagna. Per la civiltà contadina la morte non è una minaccia da allontanare per affermare la vita, ma è un momento della vita stessa, fa parte della natura e dei suoi cicli.

Oltre alle origini contadine, hanno contribuito a formare l’uomo, le assidue letture della giovinezza. Accanto a don Milani troviamo gli anarchici Bernardi e Ivan Illich e il discepolo di Gandhi Lanza del Vasto, oltre a Fromm, a Schumacher ed al giornalista e scrittore Massimo Fini. Su tutti però prevale ancora un anarchico: l'urbanista Carlo Doglio, vicino al movimento di Comunità di Olivetti ma anche a Danilo Dolci. Doglio è per Gianfranco Zavalloni un maestro in senso pieno: è stato non solo il suo docente di Pianificazione territoriale a Bologna, ma anche il relatore della sua tesi.

Alla fine di una commossa rievocazione, Zavalloni scrive: “E' vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti”. L'elogio della lentezza raccontato nel suo libro nasce dal semplice rispetto dei bambini, che è il fondamento dell'educazione. In educazione non è possibile correre e rispettare allo stesso tempo la personalità di chi vuoi aiutare a crescere; correre vuol dire fare pessima educazione, o non fare affatto educazione.

L'educazione per il maestro Gianfranco Zavalloni è una riflessione critica sulla società e la ricerca di una società migliore, come spiegava don Milani ai giudici. La scuola diceva Gianfranco Zavalloni può muoversi tra due poli: quello del soggetto e quello del sistema. Può, cioè, occuparsi dello sviluppo delle persone che le sono affidate, lavorare perché crescano in più dimensioni in un ambiente sereno, oppure preoccuparsi di adattarli a vivere in società, facendo accettare loro i valori dominanti; affinché la società stessa possa mantenersi salda e perpetuarsi.

In teoria, la scuola italiana non sceglie uno dei due poli, ma rispetta entrambe le istanze: è una scuola al tempo stesso per la persona e per il sistema, che educa alla formazione piena della personalità ma non trascura la socializzazione e l'inserimento nel mondo del lavoro. Ma nella pratica, in una società capitalistica, è semplicemente impossibile tenere insieme le due cose. Occuparsi in modo reale, e non solo retorico, dello sviluppo personale, vuol dire giungere alla messa in discussione dell'assetto sociale e soprattutto economico.

Non è difficile accorgersi che la scuola italiana ha scelto di fatto il polo della società. E' una scuola che educa al capitalismo, vale a dire all'individualismo, alla competizione, alla quantificazione, alla considerazione della stessa cultura ed educazione come una merce da spendere sul mercato. Non si spiegherebbero altrimenti cose che sembrano far parte in modo naturale della scuola, e che invece sono il risultato di una scelta. Tale è, ad esempio, il voto, che fin dalla scuola primaria separa i bambini gli uni dagli altri, li divide in bravi e meno bravi e li contrappone, in una sorta di insensata gara educativa.

Tale è lo stesso setting dell'aula, con i banchi separati in file parallele, in modo che gli studenti possano comunicare tra di loro il meno possibile. Da dirigente scolastico, Gianfranco Zavalloni è stato un uomo inserito in questo sistema. Ma ha anche mostrato come è possibile scardinarlo dall'interno, inserire in esso logiche nuove, approfittando di ogni spiraglio. Così per i voti. Dal momento in cui vengono introdotto i voti, osserva, accadono due cose: i bambini fanno le cose non più per piacere, ma per il voto, e nasce la competizione.

Ma non è proprio possibile abolirli? La sua risposta è sì. Non si parla, in fondo, di scuola dell'autonomia? E a cosa serve, l'autonomia, se non a fare scelte autonome, anche coraggiose? E' ben possibile, nella scuola dell'obbligo, “provare strategie di cooperazione didattica e di tutoraggio che possono far scomparire, ad esempio, il fenomeno della concorrenza e della competizione”. Un cambiamento che richiederebbe anche la scomparsa di termini ed espressioni che sono entrati nel linguaggio scolastico provenendo dal mondo dell'economia, come quello di “profitto scolastico”.

Cosa vuol dire studiare “con profitto”? Perché non si parla, piuttosto, di “piacere scolastico”? Non avrebbe più senso? Fin dalla scuola primaria i bambini sono, nella percezione dei loro insegnanti, dei piccoli risparmiatori che da subito devono cominciare ad accumulare, per godere poi da adulti di un discreto capitale. Se si considera poi la prassi di assegnare compiti a casa, viene da pensare che questo percorso di accumulo capitalistico dello pseudo-sapere scolastico e del riconoscimento sociale debba essere anche, per scelta deliberata, un percorso ad ostacoli: come se si cercasse di rendere la vita dello studente il più possibile spiacevole e dura, al fine di eliminare del tutto il piacere ed il desiderio.

Per Gianfranco Zavalloni, i compiti andrebbero aboliti durante le vacanza (e ai suoi maestri manda una lettera che suona come avvertimento: se si ostineranno a dar compiti agli studenti, sappiano che ci sono “alcuni lavori che possiamo fare benissimo insieme nel periodo delle vacanze pasquali”, ma soprattutto vanno ripensati. Gli esercizi ripetitivi possono essere fatti in classe (lì dove, occorre notare, lo studente potrà essere seguito – come è giusto che sia – dall'insegnante, senza che nello svolgimento dei compiti pesi dunque il fatto di avere genitori con la laurea o con la licenza elementare); per casa, si possono assegnare attività interessanti, piacevoli e soprattutto creative, che lo studente faccia senza avvertire alcun peso.

Quanto al setting dell'aula, come dirigente scolastico Gianfranco Zavalloni aveva richiesto banchi e sedie rispettosi al tempo stesso degli studenti e della natura. E dunque: sedie e banchi ergonomici in legno massello, con i banchi progettati in modo da poter essere uniti per formare un tavolo unico. Poiché banchi e sedie simili non erano in commercio, sono stati appositamente progettati e prodotti da una azienda locale: un esempio di come sia possibile ripensare la scuola dal basso anche strutturalmente, invece di rassegnarsi all'insensato setting tradizionale.

La scuola capitalistica è la scuola della classe borghese, dove i figli dei contadini e degli operai si vergognano di essere tali, e cercano di nascondere la loro origine mentre lo studente modello, quello che otterrà più facilmente il “profitto scolastico”, è il figlio del libero professionista, dell'avvocato o dell’ingegnere. A scuola si studia: non si lavora, bisogna usare la testa per diventare intellettuali, non le mani. L'agricoltura e l'artigianato non hanno, per chi ha pensato la nostra scuola pubblica, alcun valore formativo.

Alla scuola primaria si potranno usare le mani per fare “lavoretti”, ma lavori veri e propri no. Lavorare il legno, lavorare la creta, lavorare la terra: tutto ciò è troppo concreto, troppo materiale per la scuola italiana. Il contadino, l’educatore, il maestro Gianfranco Zavalloni è stato tra gli ispiratori del progetto degli orti di pace, espressione che ribalta quella di orti di guerra, gli orti improvvisati che si diffusero nelle città durante la guerra per rispondere ai bisogni alimentari della popolazione.

La diffusione della scuola di massa, in Italia, ha coinciso con la fine della civiltà contadina e l'avvio di un processo di omologazione culturale che ha progressivamente smussato le differenze culturali tra classi sociali, imponendo il modello borghese. Purtroppo oggi non esiste più, in Italia, qualcosa come una “cultura contadina”. Chi ancora vive del lavoro con la terra quasi se ne vergogna. Gianfranco Zavalloni ricorda che quando, entrando in una classe, chiedeva quanti studenti erano figli di contadini, si alzavano pochissime mani; quando poi raccontava di essere lui stesso figlio di contadini, e spiegava l'importanza del mondo agricolo, le mani alzate aumentavano.

Il progetto di Gianfranco Zavalloni, finché il suo tempo terreno glielo permise, fu quello di  portare nelle scuole gli orti ed il lavoro della terra, dimostrando come l'innovazione nella scuola non debba passare necessariamente attraverso la tecnologia. Lavorare la terra, per dei bambini di città, vuol dire recuperare abilità manuali, sviluppare l'osservazione, fare esperienze utili anche per la crescita delle conoscenze e della riflessione, ma soprattutto, significava “attenzione ai tempi dell'attesa, pazienza, maturazione di capacità previsionali”.

Vuol dire imparare a fermarsi e ad aspettare: in una parola, rispettare. E forse nulla è più urgente da imparare, per i bambini e per gli adulti che insegnano ai bambini. Un altra delle cose belle che ci ha lasciato il maestro Gianfranco Zavalloni sono i suoi disegni, che sembrano fatti da un bambino con la consapevolezza tecnica di un adulto. Nei disegni c'è tutta la sua spiritualità, il suo amore per le cose essenziali, la sua fantasia, la poesia, l'amore per l'infanzia – anzi, la capacità di vivere, di stare nell'infanzia anche nell'età adulta.

Ogni educazione autentica è al tempo stesso un educarsi; ogni rapporto educativo è bidirezionale e reciproco. Chi educa viene educato nell'atto stesso di educare. Questa verità semplice, che molti negano quasi con sdegno, mette in discussione i rapporti di dominio in campo educativo ed è stata vissuta quotidianamente dal maestro Gianfranco Zavalloni ed era, probabilmente, il suo segreto. Educava i bambini, ma al tempo stesso era a scuola da loro: e questo gli ha permesso di non smarrire mai il rapporto con la poesia, la bellezza e la verità.

Non posso che concludere questo lungo articolo con le parole del maestro Gianfranco Zavalloni, che da capo scout pronunciò in occasione del convegno nazionale sul tema Scoutismo ed educazione alla pace (Verona 17-18 ottobre 1997) “Raccontarsi: l'importanza della autobiografia Io credo che ognuno di noi dovrebbe, quando interviene su temi come questo della educazione alla pace, fare ciò che ha fatto spesso Baden Powell (l'ideatore del metodo educativo dello scoutismo), scrivendo i suoi testi sullo scoutismo, fare cioè autobiografia.

In poche parole è ciò che cercherò di fare anch'io per trarre poi alcune riflessioni sulle esperienze di educazione alla pace nelle diverse branche. La mia esperienza scout inizia nel marzo del 1965 come lupetto. Dal 68 al 72 sono negli esploratori: sono anni di grande rinnovamento. Nello scoutismo italiano si iniziano ad affrontare temi come la comunità capi, la collegialità, la coeducazione, l'assistente ecclesiale come un capo fra i capi.

Dal 72 al 76 sono nella Comunità R/S, che nel frattempo era divenuta da ASCI, AGESCI. Nel 1980 c'è l'incontro con i movimenti nonviolenti: Massafra e la comunità dell'Arca, il Movimento Nonviolento, il Movimento Internazionale di Riconciliazione, l'esperienza di Don Milani a Barbiana e naturalmente Lettera ad una professoressa. Dal 1982 a tutt'oggi sono Obiettore di Coscienza alle Spese Militari. Mi laureo nel 1984 in economia e commercio col professore Carlo Doglio, ordinario di Organizzazione e Pianificazione Territoriale all'Università di Bologna.

Doglio è un anarchico-nonviolento, lavora con Olivetti nell'esperienza di Comunità negli anni 50, va poi in Inghilterra dove conosce personalmente E.F.Schumacher di cui traduce Piccolo è bello” e lavora anche con Danilo Dolci a Partinico. La mia tesi di Laurea è sulle Tecnologie Appropriate nelle Ande peruviane. Per questo resto in Perù per 6 mesi vicino ad alcuni amici capi scout che stavano facendo l'esperienza di volontariato internazionale nel (MLAL) Movimento Laici America Latina.

A Cesena, all'inizio degli anni '80 (sono gli anni della base nucleare di Comiso) oltre a fare il capo scout nelle diverse branche, metto in piedi con alcuni amici il Centro di Informazione Nonviolenta. Una realtà che ben presto si interroga su "quali violenze le donne e gli uomini romagnoli vivono nel quotidiano". Ci si chiede che cos'é violenza nel luogo in cui viviamo? Violenza che significa tumori, nitrati nell'acqua, pesticidi nella frutta e verdura, concimi chimici gettati nel terreni. Da qui è nata l'idea e l'ipotesi delle Tecnologie Appropriate e di un centro che lavori su queste tematiche. Dal 76 al 90 ho fatto servizio attivo con i ragazzi in tutte le Branche.

Poi ho fatto l'esperienza per 6 anni, dal 90 al 96, come Capo Redattore di Giochiamo. Professionalmente ho fatto per 17 anni "il maestro nella scuola materna”, e oggi sono Direttore Didattico a Moena, in Val di Fassa, zona di minoranza etnica e linguistica ladina. Devo con franchezza affermare che la mia esperienza di maestro e di Direttore Didattico deve molto alla mia "esperienza scout". Ad esempio la formazione come capo-scout mi è servita tantissimo al mio fare il maestro e oggi il direttore.

Attualmente sono incaricato nazionale del Settore PNS Pace-Nonviolenza-Solidarietà dellAGESCI. Educare alla pace vuol dire: "impegnarsi per suscitare fin dai primi anni di vita di un uomo ed una donna quelle virtù eroiche di solidarietà, altruismo, lealtà, senso di avventura e di inconsueto che permettano così ad un popolo di vivere in un luogo ed in un epoca storica sentendosi corresponsabile del proprio destino e del destino di altri popoli e cercando di aiutarsi vicendevolmente a sviluppare le proprie potenzialità per il conseguimento della felicità di tutti”.   Francesco Sciacchitano

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