“Perché “prena”?”
Stai guardando “La stagione della caccia”, da un romanzo di Andrea Camilleri, uno sceneggiato dalla trama complessa, da seguire con estrema attenzione, possibilmente fino alla fine, checché ne pensi la RAI che te lo interrompe sul più bello.
Ma ecco che una parola, buttata lì, ti distrae, suscitandoti una domanda.
Il marchese Peluso è riuscito a mettere incinta Serafina, la moglie del fattore, e lei (sorvoliamo sull’intreccio) lo annuncia felice, esclamando: “sono prena!”
Non che il termine mi sorprenda: a Mazara è ancora in uso e, per quanto il siciliano di Camilleri non sia sempre aderente al nostro dialetto, stavolta si tratta di un’espressione familiare.
Ma chi ce l’ha infilata questa parola, nel nostro dialetto? Non i Romani: in latino, il termine corrispondente è ‘gravida’, ancor oggi un sinonimo in italiano, il cui ‘incinta’ somiglia, per giunta, al francese ‘enceinte’.
E così ci siamo giocati subito gli Angioini, che ancorché sopportati qui per un periodo limitato, qualche francesismo ce lo lasciarono.
Forse gli Arabi? No, quelli erano specializzati in toponomastica: mezza Sicilia è ancora nominata in arabo a botte di prefissi (Gibil, Misil, Calat, Rais, Bahar, Marsa, Favar), ma in arabo incinta si dice ‘hamil’.
Gli Spagnoli, allora, che ci dominarono per mezzo millennio? Il siciliano abbonda sia di termini castigliani che catalani… cominciare a citarli a memoria porterebbe via mezzo articolo, quindi mi limiterò a quello che più mi affascinò da bambino, la ‘scopetta’ con cui mio padre chiamò sempre il suo fucile da caccia, che in spagnolo si limita a perdere una ‘T’.
Incinta, però, si dice ‘embarazada’: si tratta di un classico ‘falso amico’, ossia un termine assonante in lingue diverse, ma non esprimente lo stesso significato, come il ‘burro’ dello scorso articolo in cui si parlava di equini, ed infatti vi s’intendeva l’asino; altre volte, ed è peggio, ed è questa una di quelle volte, i significati non si discostano poi troppo, e se vi sono balenate associazioni d’idee circa gravidanze talvolta imbarazzanti, ve le lascio volentieri perché oggi si rischia di passare per ‘politicamente scorretto’ per molto meno.
Ma, se devo essere sincero, io tutte queste domande non me lo sono fatte, perché il termine, confesso, mi è familiare anche nella lingua da cui è tratto.
Che poi sarebbe quella di Shakespeare, il quale userebbe ‘pregnant’, lasciandoci ricordare che in inglese, il digramma ‘gn’ non esiste e le due consonanti suonano quasi come ‘N’.
E questa è la parte facile del quesito; la difficile è capire come mai una condizione tanto naturale per l’essere umano venga, qui in Sicilia, denominata con una parola presa in prestito da un popolo che qui giocò un certo ruolo solo per un decennio, e pure di recente, dovendosi risalire appena ai primi anni del XIX secolo.
Tanto più che, come dimostra la sua adozione da parte di Camilleri, il termine è in uso in tutta la Sicilia, non solo alla sua estremità occidentale, ove ancora s’incontrano i discendenti di famiglie inglesi che qui si insediarono a fine ‘700 – inizio ’800.
E dove termini inglesi di uso comune sono diversi, e, per me, fonte di piacevoli polemiche, specie con l’avversario per eccellenza, ossia il Toscano che sempre ti guarderà dall’alto in basso, convinto che l’italiano lo abbia inventato il suo conterraneo Dante.
Costui non mancherà, ad esempio, di apostrofarti, se sulla battigia, chiederai che ti si passi la ‘tovaglia’ per asciugarti: “ma ‘ome parli? La tovaglia si usa sulla tavola del desinare!” – E tu, di rimando “’ ‘gnorante! Deriva da towel ..trattasi di anglicismo, retaggio della presenza britannica in Sicilia!”.
Lo stesso può dirsi per ‘mappina’ che, nonostante taluno obbietti, sono convinto provenga da napkin.
Articoli di igiene, come si può constatare, verosimilmente non troppo in uso dalle nostre parti all’epoca in cui le relative denominazioni furono introdotte nel nostro linguaggio.
Il che mi fa riflettere sul fatto che definire ‘barbarismi’ i termini di derivazione straniera forse non sia stata una scelta felice.
Sarebbe inglese, okay (giustappunto) direte voi; ma perché si dice ‘prena’ proprio in Sicilia?
E che ne so? Mica sono Mandrake…lo scopriremo solo vivendo, forse.
Io posso sbilanciarmi, a massimo, su dove si parli, in Sicilia, il dialetto più “inglese”.
Per quanto incoraggiato dal fatto che noi, qui a Mazara, chiamiamo ‘muletti’, all’inglese (da mullet), i grossi cefali di cui, 2 secoli fa, ci nutrivamo pescandoli dal fiume (secondo la testimonianza di monsieur Vivant Denon, che passò dalle nostre parti, ma è più famoso per avere fondato il museo del Louvre) devo ammettere cha Marsala ci batte con la lucertola, per noi ‘ciaramucia’, ma per loro ‘licciarda’ dall’inglese ‘lizard’.
E sorvoliamo su “licciarda pitrusa” che, secondo loro elaborazione autoctona, starebbe ad indicare il geco…
di Danilo MARINO
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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