Ho il privilegio di vivere dentro un piccolo giardino, con un microscopico agrumeto che sono riuscita a preservare quando ho tracciato le fondamenta della mia rinascita. Feci un patto con il capo mastro: avrebbe avuto l’appalto se fosse riuscito a tirare su i muri senza danneggiare la seconda ed ultima fila di alberi, piantati da mio padre, che avevano deliziato mia madre ad ogni primavera, con il profumo delle zagare. Mi diede la sua parola d’onore e cominciammo i lavori e, anche se ogni tanto sentivo gli operai borbottare che avremmo fatto meglio ad estirpare il pompelmo, la casa del mio dopo venne su bene e mi diede l’occasione di recuperare alcune radici delle mie radici.
Prima che fosse rasa al suolo la casa della campagna attigua che ci ospitò nei gelidi giorni del terremoto del Belìce e ancora per tanti anni, sono riuscita a realizzare una talea dalla pianta di citronella che risaliva agli anni di mio Zio grande, il padrone della campagna, le cui iniziali troneggiavano nel cancello di ingresso che a noi bambini sembrava grandissimo.
E nel mio piccolo giardino continua a crescere il nespolo derivante dai nocciuoli dell’albero antico su cui ci siamo arrampicati per anni, saltando dai suoi rami al tetto dell’unica stanza che ci aveva ospitato nei primi mesi del 1968. Un nespolo che fa questi frutti dal sapore dolcissimo, unico e delizioso persino quando diventano “pucce”, come diceva la Zia romana.
Nel giardino della mia nuova vita ho piantato un melograno: anch’esso ha radici profonde che mi riportano alla mia infanzia felice, piena di bambini e di femmine (nonne, madri, zie, cugine) ed ecco che arriviamo al grande gesto di abbeverare gli alberi, imparato dal mio Maestro, che non avrei mai più dimenticato (il gesto, ma anche il mio Maestro).
Andavo in terza elementare, eravamo tornati a scuola a pochi mesi dal terremoto ed era arrivata la primavera col suo carico di scirocco. Avevamo il nostro bel sussidiario ed eravamo passati dal saper leggere, scrivere e far di conto allo studio di altri argomenti che aprivano le finestre delle nostre piccole menti, una ad una. Il Maestro amava soprattutto le materie scientifiche, la matematica, la geografia ed anche la storia. Ci raccontava le avventure incredibili che aveva vissuto in Africa ai tempi della guerra come quando avevano trovato un boa enorme che aveva appena ingoiato un piccolo elefante e stava dormendo dentro un abisso senza sogni per consentire ai suoi succhi gastrici di dissolverlo, digerirlo e assimilarlo. L’immagine del boa che aveva ingoiato un elefante mi tornò familiare tanti anni dopo, quando il Piccolo Principe disegna quello che tutti pensano sia un cappello, ma io sapevo già che cos’era, grazie alle avventure africane del mio Maestro!
Ma torniamo ai nostri alberi… Che volete, alla mia età divagare è il modo normale di vivere, perché è sempre più difficile intraprendere un solo sentiero fino alla fine e tralasciare tutte le biforcazioni che la mente ci propone, senza che glielo avessimo chiesto.
E dunque un giorno il Maestro ci iniziò alla botanica, alla fotosintesi clorofilliana, a come le piante crescono con la luce e l’acqua. Se volevamo davvero far sì che i nostri alberi crescessero sani e rigogliosi, avremmo dovuto innaffiare non sono le radici, ma anche il fogliame, come fa la pioggia.
Detto, fatto. Tornata alla campagna dello Zio grande, che ogni giorno diventava sempre più Casa, uscii in cortile dove cresceva un melograno solitario e bellissimo. Stava esplodendo di fiori arancioni, turgidi e promettenti di chicchi succulenti. Faceva già caldo e una bella annaffiata sarebbe stato il più bel regalo che avrei potuto fargli. E così presi una tinozza, la riempii alla pila e riuscii a sollevarla con la forza della missione da compiere e - splash! - nel lanciare l’acqua verso la chioma del melograno mi ritrovai inzuppata dalla testa ai piedi…
Non ricordo di aver pianto e credo che mamma e papà non mi abbiano neanche rimproverata. “Me lo ha detto il mio Maestro...” – dissi e tutto finì in una gran risata. Perché il mio Maestro era molto ben voluto dai genitori, era un’autorità indiscussa, conosceva un sacco di cose e stimolava la nostra curiosità e la voglia di imparare. Mia madre, felice, acquistava un’enciclopedia dopo l’altra, a partire da “I Quindici”, i Libri del come e del perché, che già alla fine della quarta elementare avevo divorato e messo in atto con il mitico volume del “Fare e Costruire”, con la complicità di sorelle e cugini. Grazie a quella cultura primitiva riuscii a stupire la mia famiglia (ma non mio padre che aveva una fede incrollabile nella sua geniale primogenita) quando in una notte tiepida vedemmo un alone attorno alla luna.
“Che meraviglia!”
“Che cosa può essere?”
Ognuno diceva la sua ma io mi intrufolai in salotto ed uscii con un libro in mano. Trovai con sicurezza quello che cercavo e lessi la spiegazione scientifica scritta con parole semplici, per essere capite da tutti, e tutti capirono ed apprezzarono.
Il mio Maestro mi viene in mente anche per le sue domande sibilline e il silenzio che ne seguiva, mentre le nostre rotelle si mettevano in moto e le nostre bocche ad un certo punto cominciavano a sciorinare una risposta dopo l’altra, fino alla soluzione che finalmente arrivava ma sempre e solo dal Maestro.
“Qual è l’organo più importante del corpo umano? ”
“Il cuore! Il cuore! Perché quando smette di battere si muore!”
“No.”
“I polmoni! I polmoni! Perché quando si smette di respirare si muore!”
“No.”
“Il fegato! Le budella! La milza!”
“No, no, no.”
Ripassavamo a voce alta le parti del corpo umano che avevamo visto nel sussidiario, ma non trovavamo la risposta giusta, finché il Maestro si impietosì.
“Il cervello. L’organo più importante del corpo umano è il cervello. E’ quello che quando moriamo si deteriora per primo. Anche se il cuore smette di battere per qualche minuto, non siamo morti. Anche se smettiamo di respirare per qualche minuto, non siamo morti. Moriamo solo quando il nostro cervello cessa di vivere e con lui vanno via tutte le nostre funzioni vitali.”
Una grandissima lezione che capii nella sua complessità solo tanti anni più tardi, quando il pensiero e i pensatori entrarono a far parte della mia vita insieme ad un’altra straordinaria Maestra, la Professoressa di Storia e Filosofia. Scrivo tutto in maiuscolo perché è così che me la ricordo. Una grande Maiuscola con un cappotto color cammello che si è insinuata nella nostra vita di adolescenti con la forza prorompente dei suoi occhi magnetici e del suo Sapere raggomitolato in un cervello di tigre.
Appena cominciava a sbrogliare una delle sue infinite matasse ecco che si dipanavano davanti a noi domande, risposte, molte più domande, pensieri epocali che davano un senso alle epoche e costruivano pentagrammi virtuali dove tutto il resto si collocava in armonia (arte, storia, letteratura).
Ci forniva le chiavi per aprire le porte del Tempo ed interpretare avvenimenti, personaggi, scelte.
Riuscimmo ad avvicinarci ad un solo filosofo all’anno, tre in tutto il triennio (Platone, Kant ed Hegel), ma bastò e soverchiò perché ci era rimasto un metodo di apprendimento che non avremmo più dimenticato, quello di guardare gli eventi nel loro contesto, di non fermarci alla singola nozione, di collocare ciascuna tessera nel grande mosaico universale.
Ma torniamo ancora al mio Maestro, perché c’è un’altra cosa che mi ha insegnato per l’eternità. Un giorno ci fece un’altra delle sue domande che mettevano in moto i nostri neuroni, anche questa volta senza alcun risultato… Avevamo appena finito di recitare il Padre Nostro. A quei tempi si cominciava la giornata così.
“Bene, qual è la frase più importante del Padre nostro, quella che dà un senso alla nostra fede?”
Ad ogni frase che usciva dalle nostre bocche e si accavallava fin sul soffitto della classe, il Maestro rispondeva inevitabilmente con un “No.”
Dopo aver sorriso, come faceva sempre, prese un bel respiro e ci svelò il mistero:
“Dacci OGGI il nostro pane QUOTIDIANO. Sapete perché? Perché Dio ha bisogno della nostra preghiera ogni giorno. Non ci ha insegnato a dire <>. Dobbiamo chiedere ogni giorno e Dio darà ogni giorno. Capito?”
Il pane quotidiano. Nel nome del Padre. Quando tutto è crollato ho riassaporato per alcuni anni il sapore del pane e del padre quotidiano. Quando anche mio padre ha cambiato città mi sono rifiutata per il resto dei miei giorni di comprare il pane. I miei figli se ne sono fatti una ragione. Lo mangiano a casa delle zie e degli amici. Poi ho imparato a farlo in casa e ho messo una pezza sul cuore, ma non è mai stato più la stessa cosa.
di Antonella MARASCIA
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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