L’elogio dell’ozio

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
28 Settembre 2013 06:52
L’elogio dell’ozio

In un periodo dove la disoccupazione regna e la crisi economica in corso colpisce duramente siamo in molti, anzi moltissimi, che ci troviamo nell'attesa di ritrovare un'occupazione, qualunque essa sia, perché il lavoro è diventato un bene scarso, una merce di lusso e per di più distribuito in maniera diseguale, ed è cosi che ci vediamo costretti ad accettare qualunque tipo di contratto, purché retribuito, disposti a prendere qualsiasi tipo di incarico, disposti a svendere le nostre capacità, esponendo il rapporto col lavoro non come qualcosa di

gratificante, se non come una condizione di prigionia che ci rende più schiavi e meno felici. E in questa attesa, la colpa di essere disoccupati ci paralizza, ci rende frustrati e non ci lascia spazio per godere delle bellezze che offre il dolce far niente. È proprio per questa condizione nella quale mi trovo che ho deciso di scrivere un personale elogio a un termine sottovalutato nel tempo, estromesso dalle attività umane, tacciato come il padre di tutti i vizi, esiliato da quelle repubbliche che, ahimè, costituzionalmente si fondano sul lavoro come principio basilare della democrazia contrapponendolo all'ozio e, per tanto, considerandolo come un cancro da estirpare.

Anche se la connotazione originaria di ozio, derivante dal latino otium ha ceduto nel tempo a un'accezione negativa del termine l'ozio non è sempre stato oggetto di riprovazione sociale. Dell'ozio scrissero grandi pensatori come Aristotele, Agostino (Il lavoro dei monaci), Seneca (De otio), Epiteto (nel Manuale), Bertrand Russel (Elogio dell'ozio) e il socialista Paul Lafargue (Elogio della pigrizia) ed Herman Hesse (Il piacere dell'ozio).

In un mondo che ha fatto del lavoro la propria religione l'ozio è considerato una bestemmia. La società capitalista moderna lo disprezza perché danneggia il sistema produttivo, i governi lo guardano con sospetto e lo condannano all'isolamento, pressi di una isteria stacanovista per incrementare la produttività, una mentalità tesa solo al profitto che non lascia spazio alla riflessione, all'introspezione e alla possibilità di coltivare interessi diversi del proprio lavoro.

Sono in molti i sostenitori della filosofia dell'ozio, fieri oppositori di un sistema che pone al suo centro efficienza e produttività fino al massimo livello, contrari al concetto di vivere per lavorare e lavorare per vivere. Tuttavia siamo dentro un meccanismo che impedisce di abbandonarci completamente all'ozio, perché lavorare, anche duramente, è spesso necessario e nella giusta misura fa anche bene. Ma di quello di cui ci dobbiamo liberare e della schiavitù del lavoro, l'opinione per cui se non lavoriamo non siamo nessuno.

"Chi vive solo per lavorare quindi è un miserabile, chi ozia un rivoluzionario"(P.Lafargue)

Vorrei soffermarmi un attimo per parlare di Paul Lafargue (Santiago di Cuba, 15 gennaio 1842 – Draveil, 26 novembre 1911), perché considero che il suo insegnamento rivoluzionario è oggi più attuale che mai. Con suo capolavoro intitolato Diritto all'ozio(1887) , prova a dimostrare la virtù del termine, mettendo l'ozio come padre e madre di tutte le idee migliori.Militante attivista nell'Internazionale di Francia e Spagna, abbandonò ben presto la medicina dedicando la sua vita alla politica rivoluzionaria.

In perfetto spirito libertario proclamò l'ozio un bene da salvaguardare per l'equilibrio psicofisico di ogni essere umano. Genero di Karl Marx scriveva nel suo libro: "Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni in cui domina la società capitalistica. E' una follia che porta con sé miserie individuali e sociali che da due secoli stanno torturando la triste umanità. Questa follia è l'amore del lavoro, la passione esiziale del lavoro, spinta sino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della sua progenie".Da medico, Lafargue era conscio del danno irreparabile inflitto all'organismo del proletario dall'eccessivo carico di lavoro cui era sottoposto.

Imputò al lavoro "la causa di ogni degenerazione intellettuale e di ogni deformazione organica. (...) Lavorate, lavorate proletari per far più grandi la fortuna sociale e le vostre miserie individuali, lavorate, lavorate affinché, divenendo più poveri, abbiate ancor più ragioni per lavorare ed essere miserabili. Questa è la legge inesorabile della produzione capitalista"(in Diritto all'ozio, Feltrinelli, Milano 1978, p.121).

Ora che dovrebbe essere chiaro anche ai ciechi dove ci sta portando il capitalismo sfrenato, e cioè alla disperazione e alla distruzione, l'unica cosa sensata mi appare non già sognare rivoluzioni impossibili nell'era della crisi globale e dei social network ma bene cominciare una rivoluzione silenziosa e non violenta che recuperi l'otium latino, che non è il semplice far niente o la pigrizia sterile. Dobbiamo riappropriarci di noi stessi e del nostro tempo libero, sviluppare il nostro talento creativo riscoprire piaceri oziosi che sono assolutamente gratuiti, come una passeggiata in un parco ed imparare i nomi degli alberi, visitare i musei, le chiese, praticare qualche sport. La cura di noi stessi dovrebbe soppiantare l'attivismo a ogni costo, la realizzazione personale passa da qui ed è questa la strada verso il benessere, perché soprattutto l'ozio è un arte che ci permette di essere liberi.

Quindi, l'invito ai lettori è di scendere da questa folle giostra, rallentare, riposarci, essere un osservatore passivo, fermarsi ad osservare il mondo e tutto quello che ci gira intorno, per riuscire ad ascoltarlo, capirlo, toccarlo, assaporarlo ed annusarlo, in silenzio, e poi riflettere .... ed è li che comincia la parte difficile perché ci toccherà pensare.

Chaski

28-09-2013 8,50

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