Il culto dei morti e la delusione dell’antico egizio

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
30 Ottobre 2013 18:39
Il culto dei morti e la delusione dell’antico egizio

Iniziare una rubrica con un argomento così delicato potrebbe essere rischioso ma siccome penso che anche gli altri argomenti su cui scriverò qualcosa non saranno meno azzardati allora eccomi qui

a cominciare. La commemorazione dei defunti, il 2 Novembre, è una ricorrenza della religione cattolica, benché non sia mai stata istituita come festività civile in Italia viene percepita come tale perché è il giorno in cui ci si sofferma a ricordare e a pensare ai propri cari defunti e, credo, alla morte in generale, di conseguenza è difficile, anche se non impossibile, in concomitanza di tali riflessioni occuparsi anche delle incombenze derivanti dal proprio lavoro. Un giorno così particolare può essere vissuto con mille stati d’animo diversi in base al proprio credo religioso, alle proprie convinzioni relative alla vita terrena e a quella extraterrena, che esista o no , oppure a seconda di quale lavoro svolgiamo, alla nostra sensibilità d’animo o a quanto sia stata fortunata la nostra esistenza fino ad oggi.

 

Quel che è certo è che nessuno difronte alla morte è indifferente, che si tratti della propria o quella di un perfetto sconosciuto. Dichiaro subito che non sono più cattolico da un po’ di anni, credo che esista un Dio, una entità superiore che ha voluto creare tutto ciò che mi circonda e che mi stupisce per la sua bellezza e complessità. Potrei essere cristiano nel senso che condivido pienamente i valori professati da Gesù di Nazareth, ma penso che questi valori possano essere vissuti pienamente anche da un fedele di altre religioni o da un ateo o un agnostico per puro senso civico o per spirito di fratellanza universale insito naturalmente nell’animo umano.

 

 Apro una piccola parentesi di sapore e sapere popolare: quando penso al “giorno dei morti”, comunemente detto, mi viene subito in mente il ricordo di una frase urlata “cu ‘ava a chiantà, cu ‘ava a scippà”. Cavolo, mi sa che sono invecchiato!  Al cimitero, fino a qualche anno fa, vi erano dei ragazzini che offrivano l’utile servizio di affitto delle scale di legno per raggiungere i loculi posizionati in alto e per potere fissare dei mazzi di fiori piantando e togliendo (chiantà e scippà) i chiodi che li tenevano  ben fissati.

Ecco il primo punto di vista: per queste persone, ma anche per i fiorai, per i pasticceri che vendono i dolci caratteristici di questa festività e per altre categorie di lavoratori, è stato e sarà un giorno di lavoro particolarmente impegnativo e remunerativo. E’ ovvio che non lo vivranno unicamente sotto questo punto di vista, ma come capita spesso nel mondo occidentale le festività religiose sono anche, ma non solo, un momento in cui l’economia ha un sussulto positivo e vi è un gran fermento di acquisti da parte dei consumatori.

 

L’altro aspetto che colgo è la funzione sociale della condivisione del ricordo profondo e nostalgico di chi non è più tra noi. Ricordare insieme è condividere emozioni profonde che ci uniscono e ci consolano rafforzando i legami parentali e amicali.

 

Come non parlare della commemorazione dei defunti anche come un giorno in cui ci immergiamo nella tradizione, nella ripetizione di gesti antichi tramandati di generazione in generazione in modi diversi a seconda del luogo in cui siamo nati e cresciuti. Basta citare i “nostri” panieri con i dolci in pasta di mandorla e i cioccolatini, i regali che i bambini,  per tradizione, riceverebbero dai morti. Un momento che i bambini di ieri e di oggi, ognuno con le caratteristiche dei propri anni, non dimentica e conserva piacevolmente nella memoria.  La prospettiva che però più mi preme mettere in evidenza è quella dell’evento religioso.

Faccio un’altra dichiarazione preventiva, non scrivo qui per diffondere verità, e non sono un docente di teologia, piuttosto spero ardentemente in un confronto con i lettori per poter comprendere qualcosa in più riguardo all’argomento. Molto sinteticamente, da ex frequentatore assiduo delle parrocchie,  so che la chiesa cattolica considera questa vita terrena un momento di passaggio per poi accedere a quella eterna in cui dovremmo vivere all’infinito ritrovando i nostri affetti e, soprattutto, riunendoci con l’entità divina.

Non potevo essere più approssimativo e sintetico di così ma credo di non aver scritto sciocchezze.

 

Da un bel po’ di tempo sono consapevole del fatto che se fossi nato in Tibet probabilmente in questo momento sarei buddhista o addirittura potrei essere un monaco tibetano dato che amo il silenzio, la pace interiore, la natura e già mi raso i capelli a zero per mia spontanea volontà. Se  fossi nato in Medio Oriente potrei essere un musulmano e credere in Allah, o essere un indù nato a Nuova Delhi e credere in decine di divinità diverse e nella sacralità della vacca.

 

Data questa premessa ho concluso che il Dio in cui io credo non può aver privilegiato una regione geografica della Terra e i loro abitanti svelandosi solamente ad essi e lasciando il resto della popolazione mondiale nell’illusione della conoscenza della Verità. Se poi penso che oggi, a differenza di ciò che si conosceva dell’universo nei secoli in cui sono nate le religioni più diffuse nel mondo,  sappiamo benissimo di vivere in un pianeta che è solo un puntino nello spazio quasi infinito che lo circonda, credo che sia difficile pensare che un Dio possa aver dato un incarico così importante a pochi eletti in tutto il suo creato manifestando solo ad essi un segno della sua vera essenza.

Quindi la mia domanda è: perché vivere la religiosità, il legame tra la propria spiritualità e il divino o l’infinito, attraverso la fede in una religione istituzionale, qualsiasi essa sia, tentando, anzi stentando nel farsela calzare a pennello a dispetto delle sensibilità, delle intelligenze, delle esperienze di vita che caratterizzano e diversificano ogni essere vivente di questo pianeta?  Se oggi resuscitassimo un egiziano  del 3000 avanti Cristo, credo, resterebbe molto deluso dall’apprendere che nessuno crede più in Osiride, dio della morte e della vita, o in Anubi, dio dell'oltretomba e patrono dei morti.

Io penso che tra poche migliaia di anni l’umanità crederà in un’unica religione diffusa su tutto il pianeta che si baserà su poche convinzioni condivise tra molti, non ho detto tutti, senza troppe sovrastrutture create artificiosamente per scopi diversi da quelli che sono diretti a dare una risposta alle domande che il 2 Novembre di ogni anno tutti, consapevolmente o meno, ci poniamo: perché esistiamo qui e adesso e dove sono i nostri cari defunti in questo momento? 

 

      G.Q.

 

30/10/2013

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