"Appunti". Tra anditi e vicoli dell’angiporto di Mazara

Un piccolo viaggio nelle venule della memoria

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
06 Aprile 2022 09:58

Ricordo la mia infanzia vissuta tra i vicoli ed i cortili dei quartieri adiacenti il porto canale, dove il quotidiano, in particolare nei mesi estivi, era vissuto come esperienza magica. La calura estiva ci portava a giocare all’ interno dei freschi anditi dei cortili, dove la bianca luce del sole filtrando attraverso il fornice d’accesso si concretizzava in un potente fascio luminoso composto da tanti piccolissimi corpuscoli che freneticamente sembravano rincorrersi l'un l'altro senza mai raggiungersi.

Quell'alone magico composto da luce e materia visibile ma impalpabile, non era altro che il pulviscolo atmosferico, essenza questa che ci attraeva e portava le nostre piccole mani ad inutili tentativi di acchiappare la luminosa volatile polvere. Era questa dimensione dell'essere e non essere che sapeva di magico, i raggi luminosi ci consentivano di vedere il non visibile, non manifesto nelle zone d'ombra. All'esterno, per i vicoli, il biancore della luce solare era interrotto da una punteggiata nera formata da silenti anziane ammantate di nero che con gli sguardi fissi nel vuoto erano intende con le mani a sarcire o realizzare reti con fare ritmato e velocissimo.

Dai volti distinti dalle rughe segnate dalle sferzate del tempo con occhi lucenti ed ammiccanti guardavano nel nulla come se stessero in attesa di qualcuno o qualcosa, Vaiu circannu l’ummira picchi autru un pozzu asciari (vado cercando l'ombra perché altro non posso trovare), questa sovente era la risposta che davano al passante di turno che chiedeva come stessero. A quel tempo mi stupivo di quella risposta così anomala, incomprensibile come significato alle orecchie di un bambino, infatti per cercare l'ombra bastava entrare dentro casa e non stare lì a cuocere sotto il sole.

Con il passare del tempo compresi che l'ombra che cercavano quelle donne non era né la frescura né la proiezione del loro corpo irradiato dal sole, ma era la nera ombra della morte, cercata come entità risolutrice ad una vita segnata dalle attese. Quelle anziane donne erano sicuramente le ultime testimoni, detentrici dell'antica cultura marinara mazarese, componente sociale questa che già nel 1878 Raffaele Castelli aveva così definito : “... quello della gente di mare è il più tenace delle antiche tradizioni , il più divoto, il più temperante, il più sobrio, il meno dedito ad una vita licenziosa, sebbene coll’andare del tempo e col variar de’ costumi abbia perduto anch’esso di quell’aurea semplicità del passato”.

Matriarche per necessità e non per scelta, elevate al rango di madri ancora bambine ( Fimmina a diciott’anni o la mariti o la scanni hanno convissuto con i loro uomini il mare come fonte di vita e di paure, donne che hanno condiviso con il compagno tutto, finanche le ngiurie (soprannomi) che nascevano come necessario distinguo in un ambito caratterizzato da una ricca omonimia dei cognomi. Ricordo alcuni dei loro nomi come: donna Ciccina, donna Sanna, donna Nzula, donna Betta, donna Vitina, il cui appellativo dava loro un tono di regalità, e di fatto regali erano le loro umili case vissute con la sacralità di un tempio.

Così ad esempio, dopo una nascita, la madre percorrendo in senso orario l’interno della stanza principale con in braccio il bambino lo portava in ognuno dei quattro agnuni (angoli) e sollevandolo diceva “ cà ti fici to mà” ( qui ti ha concepito tua madre), ciò per portarlo alla conoscenza dei quattro punti cardinali e quindi della terra.

Donne così nobili che dovevano mortificare il loro essere femmina, quando partorendo un maschio, dovevano buttare le acque con cui si lavava il bambino fuori casa, gridando Masculu ! E masculu arrera ! , se diversamente era una femmina, le acque andavano buttate nell’acquaio in silenzio, per sancire ancora una volta il tacito patto con la tradizione che privilegiava la nascita di maschi. Infatti fin da bambine erano state educata ai dettami del proverbio che recitava: Cu’bona rera voli fari, di figghia fimmina avi a cuminciari, ma all’annu nun ci avi ad arrivari, vale a dire i parti cominciano bene con una femmina, purché muoia entro l’anno.

Anche se in realtà la tanto negata femmina nei contesti di lavoro definiti da un’attività vagante quale è, ed era appunto la pesca, la gestione della casa e dell’economia, e a volte anche non solo domestica, era della donna. Ed era sempre lei che con un oculata economia garantiva l’ambizione del proprio uomo pescatore a divenire proprietario di barche, per vivere più comodamente in un tempo in cui la qualità della vita era un concetto alquanto astratto.

Mario Tumbiolo

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