Era il 5 febbraio del 2014 quando sul sito di TERRE DES HOMMES veniva pubblicato questo articolo che riporto integralmente: La tragedia siriana si legge negli occhi dei bambini. Sono occhi da vecchi. Occhi che hanno visto ciò che nessuno dovrebbe mai vedere. Eppure quegli sguardi sono pieni speranza, hanno sete di futuro. Nonostante tutto. E nonostante una guerra che ancora non ha conosciuto la parola fine. Incrociamo per la prima volta questi sguardi nella cittadina di Arsal. Ultima frontiera del Libano.
A ridosso delle montagne siriane, dietro le quali si sente forte e chiaro l’eco delle bombe e della morte. In questa specie di “terra di nessuno” Terre des Hommes è presente per fornire aiuto e assistenza ai cittadini siriani in fuga dalla loro terra martoriata che giorno dopo giorno arrivano in questo campo di prima accoglienza. Siamo a oltre 1.500 d’altezza e il freddo è pungente e ti entra nelle ossa. Qui ogni giorno arrivano migliaia di persone. Uomini e donne che hanno perso tutto.
A cui è stata sottratta la vita. A cui è stata negata l’eccezionale normalità del quotidiano. Uomini e donne che hanno visto morire i loro cari, distruggere le loro case. Gente che non ha più nulla. Al di là della disperata voglia di ricominciare a vivere. E tra questa folla martoriata dal dolore spiccano gli occhi di centinaia di bambini. Molti arrivano nudi, disidratati, affamati. Spesso hanno perso uno o entrambi i genitori. Bimbi che si sono visti morire davanti madri e fratelli. Bimbi a cui è stata strappata l’infanzia e a cui è stato negato il sacrosanto diritto all’innocenza.
In questa landa piena di sofferenza e di speranza abbiamo incrociato tanti occhi. E dietro ogni sguardo una storia. Una vita. Mohammed 12 anni e due occhi neri grandissimi e scaltri. Appena lo incontriamo è diffidente, non accenna nemmeno a un sorriso. O a un saluto. Si avvicina a noi dopo un bel po’. La prima cosa che fa è mostrarci un vecchio cellulare in cui tiene gelosamente custodite foto e video. Scorriamo qualche immagine. Non avremmo mai pensato che quelle foto ritraessero e immortalassero tanta violenza.
Con fare da”adulto” consumato ci mostra le foto dei sui due fratelli più grandi uccisi dai militari dell’esercito regolare siriano. Ci mostra i loro corpi senza vita. Martoriati da una violenza cieca e da una furia disumana. Ci mostra con orgoglio anche un video del suo papà col fucile in mano, aggiungendo che non sa che fine abbia fatto e se sia ancora vivo. Sua madre invece è rimasta in Siria con la sorellina più piccola. Non hanno più una casa e sono ospitati da una lontana parente che vive in un villaggio a ridosso del Kurdistan iracheno.
Ci invita nella sua tenda, dove vive insieme alla zia e i tre figli di lei. Ci offre del thè e estrae dalla tasca delle caramelle alla fragola: tutto quello che ha. Ci sta donando il calore del suo cuore. E in cambio non ci chiede nulla. Karima E’ bellissima Karima. Ha 9 anni e due enormi trecce rosse che fanno contrasto con i suoi due enormi occhi verde smeraldo. Sii avvicina subito a noi e inizia a raccontarci la sua storia. Arriva dalla città forse più martoriata della Siria: Homs. Ci dice che è rimasta illesa per miracolo ad un bombardamento alla sua scuola.
Ma lei la scuola non la odia. Anzi. Ci racconta che vuole tornarci e che le manca tanto. Poi, anche lei ci porta nella sua tenda e ci presenta la mamma, una donna di appena 26 anni e il fratellino Ezat che invece di anni ne ha solo due. Il papà è morto pochi mesi fa. Ci mostra una collanina con la mano di Fatima: un dono del padre per il suo ultimo compleanno. L’anno scorso. Poi ci prende da parte e ci mostra i suoi quaderni e le sue matite colorate. E con un po’ di timidezza ci “presenta” i suoi disegni.
Oggi è il nove marzo del 2020, sono passati oltre sei anni da questo drammatico racconto, cosa è cambiato? Questo è un articolo di pochi giorni fa di SAVE THE CHILDREN: Siria. La più grave tragedia umanitaria: i bambini muoiono per il freddo. Sette bambini, tra cui uno di soli sette mesi, sono morti per il freddo e le terribili condizioni di vita nei campi profughi a Idlib, in Siria dove è ancora in corso la guerra civile che da nove lunghi anni ha distrutto infanzie e famiglie. A darne notizia è Hurras Network, partner a Idilib di Save the Children, l’Organizzazione che lotta per salvare i bambini a rischio.
Due sorelle di 3 e 4 anni hanno perso la vita dopo che, la tenda nella quale vivevano, ha preso fuoco perché la stufa non era sicura, mentre la loro mamma incinta ha riportato ustioni sul corpo. Anche un ragazzo di 14 anni, che viveva con la sua famiglia di sette persone in una piccola tenda, non ha retto alle temperature gelide”, dichiara un operatore umanitario di Hurras Network, in una nota diffusa da Save the Children. Altre due bambine sono decedute per asfissia. Avevano 3 e 10 anni e sono morte a causa del malfunzionamento del riscaldamento, insieme a un bambino di 7 mesi e a una bambina di 1 anno, che hanno avuto un arresto cardiaco a causa del gelo.
Vi abbiamo già parlato del dramma che stanno vivendo i bambini siriani, traumatizzati, isolati e sempre più sofferenti. Muoiono sotto le bombe perché denutriti e costretti a dormire al gelo in tenda. Secondo le Nazioni Unite, dal 1 dicembre scorso su una popolazione di 3 milioni, 900 mila sono fuggite, di cui si stima che almeno la metà siano bambini. Più del 40% delle scuole e delle strutture educative di Idlib sono danneggiate, distrutte o fuori servizio e le scuole funzionanti registrano in alcune aree più di 80 studenti per classe.
A fine gennaio, anche più di 3700 insegnanti sono stati costretti a fuggire, mettendo ancora più in crisi il sistema di istruzione già al limite. “Non mi piace la neve nel campo perché fa davvero freddo e sia io che mia sorella ci siamo ammalate. Parte della nostra tenda è crollata a causa del peso della neve. Non ho vestiti o altro per riscaldarmi nella nostra tenda. Vorrei le scarpe per poter giocare nella neve come i miei amici”, ha detto Mira (nome di fantasia), una ragazzina di 13 anni che ora vive in un campo a Save the Children.
Dato il numero sempre maggiore di civili che cerca salvezza al confine tra la Siria e la Turchia, cresce la preoccupazione per la possibilità che il bilancio delle vittime possa aumentare. Le condizioni di vita nei campi sono assolutamente disumane, donne e bambini vivono senza un tetto sulla testa né vestiti caldi, esposti a temperature sotto lo zero. “Anche quando queste persone riescono a trovare una tenda, un riscaldamento e un materasso, rischiano di morire asfissiati dai riscaldamenti difettosi o che il loro rifugio prenda fuoco”, spiega in una nota Sonia Khush, direttrice generale di Save the Children in Siria.
Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, dal 9 al 12 febbraio scorsi circa 142 mila persone sono fuggite verso il confine turco, la stragrande maggioranza delle quali sono donne e bambini, costrette ad allontanarsi solo con i vestiti che indossavano. Più di 80 mila persone vivono attualmente in campi ricoperti di neve, esposti all’inverno gelido della Siria settentrionale. Per riscaldarsi, si ritrovano a dover bruciare plastica o altri materiali infiammabili, quando non riescono a trovare la legna.
Arsal, è una città e un comune situato ad est di Labweh, a nord-est di Beirut, nel distretto di Baalbek del Governatorato di Baalbek-Hermel, in Libano. Idlib (in arabo: إدلــــب) è una città della Siria nord-occidentale, situata vicino al confine con la Turchia, vicino all’antica e grande città archeologica di Ebla, ed è il capoluogo dell'omonimo governatorato. La distanza tra queste due città è di appena 244 km, percorribili in macchina in meno di due ore, ma la distanza tra quello che queste città stanno vivendo da quasi un decennio è lontana anni luce dalla nostra realtà occidentale, dal nostro bel paese, anche in momenti difficili come quelli che stiamo attraversando a causa del coronavirus.
E bene ha fatto Papa Francesco all’Angelus di ieri a ricordarci di questa immane tragedia, e bene hanno fatto tutti quei giornalisti che sono andati a in piazza San Pietro dichiarando il loro “colpevole silenzio” e ringraziando papa Francesco, perché la sua voce è l’unico richiamo a resuscitare in noi l’umanità, a guardare negli occhi le donne, gli uomini, i bambini di Idlib e di tutta la Siria come guardiamo negli occhi i nostri familiari più cari. Chiedere giustizia e protezione per loro significa chiedere giustizia, solidarietà e protezione per noi stessi; l’avanzare del contagio da coronavirus deve accrescere la nostra capacità di provare "compassione" nel senso più alto per le sorelle e i fratelli siriani; sarebbe un suicidio sociale, culturale e persino economico chiuderci in casa e pensare che il mondo fuori dalla finestra non ci riguardi: quello che accade all’altro da noi accade a noi.
Francesco Sciacchitano