Ultime della sera. Il virus visto da dentro

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
03 Aprile 2020 19:55
Ultime della sera. Il virus visto da dentro

Stamattina ho letto un interessante articolo di Pietro Barbetta dal titolo “Il virus visto da dentro”, che mi piace riproporre in questa riflessione pomeridiana che sto facendo per poter scrivere un’altro articolo, (per me è il secondo dall’inizio della pandemia), che parla di Coronavirus, ma che vuole soffermarsi come dice Pietro Barbetta a guardare il virus da dentro. Per chi non lo conosce Pietro Barbetta è il Direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, una Scuola di Specializzazione in Psicoterapia riconosciuta dal MIUR, ed è anche Professore associato di Psicologia dinamica all’Università di Bergamo.

Nella sua vita ha svolto attività clinica e accademica sia in Italia che in numerosi paesi del mondo (Argentina, Brasile, Colombia, Cile, Messico, Francia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Svizzera). Per chi volesse approfondire, le sue pubblicazioni più importanti in lingua italiana, inglese, francese e spagnola si trovano su www.academia.edu oppure su Aisberg. Questo è il suo articolo che vi propongo integralmente: “Ho attraversato lesperienza del virus, proprio questo virus, a Bergamo, in questi giorni.

Chissà quanti lhanno attraversata senza neppure averne consapevolezza, alcuni, i più giovani, senza conseguenze, altri morendo senza causa efficiente, senza che il tampone fornisse loro il sigillo di morte autentica”. Le pagine dei necrologi sono lievitate da una a dodici, le notizie degli amici, dei conoscenti, dei giornali si diffondono, senza remissione. Io sto meglio, ma non è questo il punto. Chi, come me, il virus lo sta attraversando ha fatto unesperienza sui generis.

La descriverò qui con parole mie, che voglio condividere con il lettore.  Per la mia esperienza – sto attraversando il virus e sto sopravvivendo – non è tanto il fatto di essere stato inserito in una sala demergenza gremita; il non avere avuto un luogo dove stare, finché qualcuno non ti dà un giaciglio su cui coricarti, inadeguato, il tuo primo privilegio; neppure stare dentro al lazzaretto degli appestati, dove, se devi pisciare – poiché sei già attaccato a due tubi, liquido e gassoso – lo devi fare lì, in un contenitore di cartapesta, davanti agli altri, che ti guardano, come tu guardi loro.

Fai un piccolo sorriso pudico, ti copri il più possibile, senza però bagnare i tuoi indumenti e… Finché arriva il momento in cui ti danno un letto e una stanza, da condividere con altri tre.  Non è questo ciò che conta: può capitare; e anche di peggio ho visto nei miei viaggi – e la storia mostra – cose ben più gravi, sempre che abbia senso misurare il disagio e la sofferenza.   Lesperienza del virus ha una qualità propria, difficile da descrivere: lio si disperde.

Lio è la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo, scrive, se ben ricordo, Italo Calvino. Chi sta dentro il virus assume questo sguardo in modo singolare, il virus, infatti, è una finestra ingannevole, come quando, durante la notte, guardi fuori e vedi, insieme al paesaggio notturno, in sovrapposizione, te stesso che guardi fuori. La finestra e lo specchio sono portatori di luce, ma lo specchio riflette” la luce, la finestra lavora”: porta la luce da fuori, attraverso i vetri, quando è giorno.

Quando è notte la finestra diventa ambigua, inquietante. Dentro la stanza illuminata, la finestra raccoglie sguardi esterni, indiscreti, voyeuristici, malintenzionati, che spiano i movimenti per derubare e assalire, oppure sguardi curiosi e pietosi, che osservano le forme della vita umana dentro i grandi palazzi delle aree metropolitane, piccoli focolari domestici, come alveari illuminati, prodotti dellarchitettura progressista.  Abbiamo fatto tutti lesperienza di guardare fuori dalla finestra, nel buio; la stiamo facendo ancor di più in questi giorni di solitudine, ognuno dalla propria stanza, dove possibile.

Proviamo a rifarla ora, o a ripensarla, questa esperienza: se la luce in casa è accesa, da lontano non vediamo che noi stessi e la stanza in cui siamo; man mano ci avviciniamo ai vetri, vediamo anche, in sovrapposizione, il fuori: le case, gli alberi, i cancelli, il viale di casa. Vediamo ombre, cose che ci chiedono di essere messe a fuoco; se spegniamo la luce di casa, lo sfondo esterno si avvicina e la nostra immagine si affievolisce e allora le ombre degli alberi, delle palizzate, delle case si mostrano meglio, ma sempre un poco informi, magmatiche.   Lio, quando fa buio, si perde in questa sovrapposizione che rende la finestra, dunque se stesso, ben più inquietante dello specchio.

Ci voleva un grande scrittore per intuire che, se la posizione dello specchio” è dentro lintimità del rapporto con mamma e papà, la finestra è la nostra prima interfaccia con il mondo là fuori, con i continenti, le moltitudini, i deserti e gli oceani. Oggi, chiusi in casa, separati luno dallaltro, ce ne rendiamo conto più che mai, ci avviciniamo, quando fa sera, alle finestre e vediamo la nostra immagine sovrapposta al mondo. Così sembra mostrarsi il virus per chi ne è abitato, come una finestra nelloscurità.

Non si tratta solo di me: io non sono che la finestra sul mondo, lio e il mondo stanno subendo la stessa sorte, si vedono in sovrapposizione, sono mescolati, a tratti agglutinati, luno allaltro.  Gli è che, quando sei là, diventi parte della moltitudine, la discrezione che ti garantiva la finestra si dissolve in un agglomerato, si guardano gli altri guardando se stessi, non c’è più differenza, né separazione.

Lio e il mondo non si relazionano più nei termini di una finestra, perché lio e il mondo sono diventati uno, non sono più separati dalla finestra. Solo quando rientri a casa ti puoi permettere, guardando fuori, nel nuovo regime di separazione dal mondo, di ricollocare te stesso come esistenza discreta.  Ma lesperienza vissuta ti rimane dentro, anche perché, se il tuo miglioramento è un dato clinico, il dato del virus diverge dal tuo, si espande, si diffonde tra tuoi conoscenti, che muoiono, amici, che si ammalano, qui e altrove, a Madrid, a New York.

E sai di amici – coetanei, più giovani, o più anziani – che hanno, come te, altre malattie pregresse e che vivono in un mondo meno affidabile” sul piano della salute pubblica, che possono ammalarsi e morire.  Ogni giorno, in clinica, quando il peggio è passato e vieni collocato in una struttura adeguata e accogliente; ogni giorno, quando piano piano i tuoi dati clinici vanno migliorando, ti riducono lossigeno, il flusso respiratorio ritorna, e tu, fisicamente, stai meglio; ogni giorno non puoi fare a meno di essere parte di un tutto, guardi il cellulare – nuova finestra che ti unisce al mondo – i dati nel mondo, i dati di dove sei tu, a Bergamo, Brescia, a Milano.

Lecatombe cresce, lepidemia continua a diffondersi e lio non sa se, quando esce, diventa parte del ciclo di morte che lo potrebbe fare tornare là; perché lio – questo nuovo io, contaminato – non è solo qui, è anche là, ormai a disagio, come nel titolo di un romanzo di Chinua Achebe.  Tu stai meglio, ma il virus è ancora là fuori, ti sta aspettando attraverso le moltitudini che vengono contagiate, le moltitudini che ripercorrono quel che è accaduto a te, giorno dopo giorno.

Lio perde la propria differenza, si amalgama al mondo, la finestra scompare, perde la luminosità diurna e anche lambiguità notturna. Io non sono più io e il mondo non è più il mondo.  Quanti virus si sono diffusi, addensandosi sempre più nel tempo, quanti segni di devastazione devono giungere ancora, da antropocene, per far capire alluomo che siamo di nuovo sul far della sera, dove le trasparenze si confondono e le ombre nascondono insidie letali? Un tempo la natura si mostrava come potenza divina; gli antichi sapevano che doveva essere placata, avevano trovato lespediente (Poros) – gesto damore – del sacrificio: la sostituzione dellanimale al figlio.

Oggi lanimale, attraverso la trasmissione del virus, sostanza che trasforma le cellule in aggressori, ci sta restituendo lincombenza dellecatombe. Che fare?”  Il finale di questo articolo mi ricorda “Le ombre si nascondono scende ormai la sera”  l’inizio di una canzone che mi capitava spesso di cantare al fuoco di bivacco o animando le tante messe all’aperto di altrettante attività che ho vissuto con gli scout, ed anche Blowing in the wind di Bob Dylan, nella sua versione italiana “Quante le strade che un uomo farà e quando fermarsi potrà…Quanto giovane sangue versato sarà finche un’alba nuova verrà? Risposta non c’è o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà.” Hai ragione caro Professore la tua domanda che conclude il tuo bellissimo articolo è un grido silenzioso “Che fare?”, questa domanda fatta da te a tutti noi, che hai attraversato il virus guardandolo da dentro grida forte all’umanità intera di dare una risposta, una risposta che non può non esserci o essere caduta nel vento, una risposta che ci porti fuori dalla finestra dove il “mondo guarda il mondo” non per modificare il territorio, il clima, l’equilibrio del pianeta, ma per amarlo e custodirlo come sarebbe giusto fare, per noi e per le generazioni future.

Francesco Sciacchitano

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