Sabato pomeriggio sono andata al cinema con un'amica. Se fossi stata da sola sarei rimasta dentro quel cinema semivuoto a rivedere il film un'altra volta, e ad aspettare che quel groviglio che avevo nello stomaco si sciogliesse, che i sentimenti che mi attraversavano sedimentassero. Perchè la fine mi ha inchiodato alla poltrona con il cuore in subbuglio e le emozioni mi scoppiettavano dentro come i razzi pirotecnici che esplodevano a uno a uno sul terrazzo di Gemma e Paolo in quella notte di capodanno in cui, dopo anni trascorsi a giocare a nascondino con le loro rispettive vite, si erano finalmente ritrovati tutti.
Il film è “Gli anni più belli” e , finora, l'unico film di Gabriele Muccino che mi avesse veramente convinto era stato “La ricerca della felicità” : film bellissimo, struggente, distante anni luce da tutti i suoi altri. “Gli anni più belli” racconta l'amicizia tra quattro ragazzi che si snoda lungo quasi quarant'anni, ragazzi che sono adolescenti negli anni 80 e arrivano cinquantenni ai giorni nostri. Dentro, la vita. Che è la loro vita ma anche la nostra, con la nostra musica, le canzoni che abbiamo cantato, gli amori a cui avevamo creduto e che poi sono finiti, gli amici che ci hanno tradito e quelli che sono rimasti, i successi e i fallimenti, i rapporti con i figli, le cose che finiscono e quelle che invece rimangono.
E non è tanto il fatto che Gemma abbia in camera lo stesso poster di un Baglioni d'annata che avevi tu da adolescente, o che quando Paolo e Gemma si ritrovano a ballare “Reality” e si innamorano tu ti ritrovi ad avere tredici anni, non sono solo certe atmosfere che ti inchiodano a fare i conti con le tue emozioni: c'è dell'altro, in questo film. E' un affresco generazionale e, quando alla fine ti presenta i protagonisti cinquantenni, dopo un inizio di film emotivamente debole e forse anche poco convincente, tu ti ritrovi davanti le paure, le angosce, le speranze e le sconfitte della tua generazione.
Ne prendi consapevolezza, ti intenerisci, ti commuovi, li assolvi. Roma fa da sfondo, insieme alle vicende politiche più importanti degli ultimi trent'anni - la caduta del muro di Berlino, Mani pulite, l'11 settembre - alla storia di questi quatrro amici che in trent'anni si perdono, si ritrovano, si perdono di nuovo e poi si ritrovano. Però, a differenza de “La meglio gioventù”, dove i protagonisti la Storia l'attraversano e la vivono, qui resta ai margini delle loro vite, vite dove a prevalere è l'individualismo, dove la coscienza collettiva e l'impegno restano sfocati.
Muccino va a scandagliare in profondità l' animo umano, e racconta l'amicizia in modo struggente e commovente, con grande intensità. C'è Giulio/Favino con la voglia di riscattare un passato difficile- un padre violento, una mamma perduta troppo presto, una “vita ai bordi di periferia “- con lo studio, l'ambizione, l'ascesa sociale, il sogno del potere e del successo che paga alla fine con la solitudine, con l' allontanamento dagli amici fino a portar via a Paolo la donna che ama. C'è Rossi Stuart/Paolo che è il personaggio più romantico, più tenero, il professore di latino e greco che rimane sempre fedele a sé stesso, colui che, nonostante le difficoltà e i tradimenti, crede nella forza e nella bellezza dell'amore e dell'amicizia, che è capace di aspettare per realizzare il suo sogno d'amore.
E' quello che perdona, che sta lì a dimostrarci che l'attesa paga, che la coerenza paga, che paga il rimanere sè stessi, senza perdersi, senza far rumore, continuando a parlare a bassa voce mentre tutti intorno a te urlano. Santamaria/Riccardo è il sognatore, il sopravvissuto, l'attore mancato, il critico cinematografico mancato, il giornalista mancato, il padre assente: è a tutti gli effetti il fallito del gruppo ma alla fine ne è il collante, colui che riesce a tenerli insieme, a far si che non si perdano..
Infine c'è lei, Micaela Ramazzotti/Gemma. Il personaggio è quello tipicamente suo, la romana popolare, un pò coatta, ma sempre estramamente fragile, volubile. Sembra indifesa, attraversata da disgrazie e dolori che lasciano cicatrici ovunque, incapace di stabilità ma appassionata e generosa. Lei cresce, nel film, e alla fine esce fuori un personaggio di grande dignità, che si riscatta attraverso il lavoro, perchè Gemma alla fine, nonostante l'apparente leggerezza del personaggio, nonostante la ricerca spesso inconcludente dell'amore, è una donna che non si arrende, capace di badare a sé stessa, che non si perde perchè non abdica a ciò in cui crede.
E io trovo che la scena più bella e più suggestiva di tutto il film sia in quelle scale che lei sale di corsa, dapprima ragazzina e poi man mano sempre più adulta, un lavoro di regia e di montaggio straordinario, sulle note della Tosca di Puccini, e in quella scale c'è dentro tutta la sua vita, fino a quando, più che quarantenne, le sale per l'ultima volta per salvarsi tra le braccia di Paolo. E se “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, cosa possiamo dire dell' amicizia? Possiamo dire che nonostante gli errori, le sconfitte, le ferite inferte e ricevute, le disillusioni, i capelli che ingrigiscono, il tempo che passa, segna, cambia, indurisce, le distanze spazio-temporali, dentro di noi resta una nota che suona, una canzone che gira nella testa, una foto ingiallita appesa ad un vecchio muro, un bagno nudi in un lago.
E queste sono cose che ti si piantano dentro quando hai ancora l'anima mezza addormentata e non vanno più via. E quando loro si ritrovano, a cinquant'anni, in un'osteria a bere, a chiacchierare e poi per strada, brilli, a cantare, irrisolti ma felici come a sedici anni, capisci che alla fine di tutto, ciò che ci unisce sono i sentimenti e le cose che abbiamo condiviso, e in nome di quelli, a qualsiasi età, siamo sempre pronti a ricominciare, a volerci bene, sempre affamati di vita. “Brindiamo alle cose che ci fanno stare bene...”, dice alla fine Paolo.
Catia Catania