L’economia civile raccontata da Luigino Bruni

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
24 Febbraio 2020 11:58
L’economia civile raccontata da Luigino Bruni

Approfitto di un intervista che ho recentemente visto, e che riporterò in questo articolo per parlare di Luigino Bruni e della sua Scuola di Economia Civile. Luigino Bruni, economista e storico del pensiero economico, personaggio di rilievo dell’economia di comunione, intenzionata a mettere al centro la persona, e di un’economia civile fondata su ideali di reciprocità e fraternità, è editorialista di Avvenire, docente di economia politica alla LUMSA oltre che promotore e cofondatore assieme a Stefano Zamagni della SEC Scuola di Economia Civile.

Luigino Bruni racconta in questa intervista che per cambiare rotta è necessario un cambio di paradigma, a partire dal mondo dell’istruzione. “Se l’economia fosse un albero, per crescere bene avrebbe bisogno di una foresta. Capace di includere tutti gli altri alberi dell’esperienza umana, consentendo così lo sviluppo integrale delle persone, dentro e fuori il mondo del lavoro. Così sostiene Luigino Bruni nel suo libro “La foresta e l’albero. Dieci parole per un’economia umana” (Vita e Pensiero, 2016).

Una foresta dove l’economia incontra la filosofia e la teologia, recuperando intanto le sue radici.” “L’economia civile è una dimensione di pensiero economico essenzialmente italiana, che ha avuto l’età dell’oro nel Settecento napoletano - spiega Luigino Bruni - Insieme a molti altri economisti, da tanti anni, cerchiamo di riportare quest’espressione al centro del dibattito politico-economico italiano. L’aggettivo ‘civile’ è legato a città, da civiltà, civilizzazione.

Si riferisce a un’economia che si occupa di questioni legate alla felicità pubblica e meno a quella individuale, come invece fa la politica di matrice anglosassone. I beni comuni sono quelli di cui più persone usufruiscono, dai marciapiedi, ai grandi parchi: è paradossale che in economia abbiano ancora così poca attenzione. La questione climatica è un esempio perfetto di questo sbilanciamento.” Da cosa deriva questo sbilanciamento? Distruggiamo l’ambiente perché lo gestiamo come fosse una merce privata, mentre è un bene comune e in quanto tale richiede un approccio diverso.

Purtroppo l’economia come la conosciamo funziona molto bene con i beni privati, ma non altrettanto in questo ambito. Da ciò dipende il futuro della vita di tutti: oggi nelle università l’economia si concentra ancora troppo sul considerare i beni come fossero tutti privati e si parla di beni comuni solo in modo marginale, mentre dovremmo dare loro molto più spazio e ragionare su come si gestiscono, salvano e proteggono. Lei parla anche di felicità pubblica... “La felicità è un tipico bene comune, si può essere ricchi da soli, ma per la felicità bisogna essere almeno in due: la felicità è un bene condiviso.

Se la guardo come bene privato da accumulare, rischio di non raggiungerla mai. La felicità arriva quando ci occupiamo di altre persone, di passioni, di altre cose e mentre viviamo ci rendiamo conto che è qualcosa di diverso dal consumo di un bene o di una somma di consumi. Noi stiamo sperimentando un mondo in cui aumenta la ricchezza e diminuisce la felicità soggettiva, ma la felicità andrebbe analizzata con categorie più relazionali e meno individualistiche”. Cosa si può fare quindi? C’è bisogno di un cambio di paradigma e di porre l’accento sulla dimensione del noi, anche dal punto di vista matematico.

Questa è un’alternativa a come si insegna e come si fa economia oggi, dove si ragiona sull’individuo, che decide e agisce come se non ci fosse nulla attorno a lui. Non distruggiamo le cose sempre e per forza per cattiveria, ma perché ognuno fa il suo interesse e quando ce ne rendiamo conto è troppo tardi. Professore, quali sono le prime cose che dice agli studenti in università quando inizia un nuovo corso? Avendo io un approccio storico, comincio con l’origine della parola economia, la sua radice greca è oikos, che significa casa e ha molto a che fare quindi con il nostro pianeta, con la sua salvaguardia, con chi questa casa la abita e con le relazioni umane all’interno di una comunità.

In quanto dimensione della vita, di essa ha tutti vizi e le virtù e ha molto a che fare con il mangiare, il lavorare, la vecchiaia o i risparmi. L’economia è anche un modo di rispondere al perché la gente soffre, non è la medicina, certo, ma occupandosi di povertà e ricchezza, ha la possibilità di ridurre la sofferenza nel mondo. Noi tutti in questa disciplina, inoltre, paghiamo da sempre anche l’assenza di uno sguardo, quello femminile: nei secoli l’economia è stata considerata troppo dal punto di vista maschile, così sulla cura e la relazione sono prevalse l’efficienza e la produzione.

Andiamo oltre le aule dell’università: lei parla della necessità di conoscere l’economia come di una questione di democrazia. Sì, purtroppo però negli ultimi decenni l’economia si è notevolmente allontanata dalle persone e, soprattutto nel passaggio tra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo, è diventata sempre più complicata. Eppure ci riguarda da vicino. Capire perché con l’arrivo del Coronavirus assistiamo al crollo di alcuni titoli in Cina o come funzionano i mercati finanziari è molto difficile.

Davanti a questa complessità la gente si scoraggia e rinuncia a capire oppure si affida a figure più tecniche, come si fa con i dottori. Cosa comporta questa opacità dell’economia oggi? Questa assenza di comprensione comporta una pericolosa riduzione di democrazia: se non capiamo cosa c’è dietro un prodotto, una banca o un’impresa, la nostra capacità di scelta consapevole diminuisce. Aumentare la conoscenza di queste tematiche è fondamentale: dovremmo cominciare già a insegnarla ai ragazzi giovani, cercare di leggere di più e non affidarci solo ai talk show o a instant book dai titoli sensazionalistici.

Verificare che chi parla sia un economista accreditato, con un curriculum significativo. Tre titoli per cominciare? “Etica ed economia” del Premio Nobel Amartya Sen, economista e filosofo indiano, poi un classico, la “Teoria generale” di John Maynard Keynes, un libro divulgativo, senza formule, scritto da un economista chiave del Novecento. E quello di Luigi Einaudi, “Lezioni di politica sociale”, un insieme di riflessioni sul mercato, che partono dall’idea di una fiera di paese in un giorno di festa in campagna.

Un modo molto semplice, bello e accessibile di descrivere l’economia. Ho conosciuto Luigino Bruni tanti anni fa a Loppiano, al Polo imprenditoriale Lionello Bonfanti, quando Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari era ancora viva, e reduce da quel viaggio in Brasile, dove tra le miserie delle favelas aveva ideato il progetto per un Economia di Comunione, che aveva suscitato l’interesse del mondo accademico internazionale, ed in Italia quello di Luigino Bruni, diventando praticamente al seguito di Chiara Lubich l’economista principale del Focolarini.

Poi l’ho rivisto tante volte assieme a tanti illustri economisti (Zamagni, Becchetti, Magatti…) che hanno sposato queste teorie economiche che vedono al centro non il massimo profitto o il profitto a tutti i costi ma la persona e la sua felicità. Allora mi piace concludere questo articolo con il discorso che pronunciò il 18 Marzo del 1968, presso l’università del Kansas negli Stati Uniti, Robert Kennedy nel quale evidenziava l’inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate.

“Non troveremo mai un fine per la nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.

Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago.

Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”. Francesco Sciacchitano

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