Cinquantaquattro anni dopo il terremoto del Belice

Il senatore Bellafiore racconta quella notte del 14 gennaio a Santa Ninfa

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
15 Gennaio 2022 18:55
Cinquantaquattro anni dopo il terremoto del Belice

E’ stato un inferno, mancava tutto e nessuno veniva ad aiutarci. E poi quel freddo immenso…”. Era la notte tra il 14 e 15 gennaio del 1968 e Santa Ninfa crollava su se stessa sussultando sotto la spinta di una scossa sismica pari al nono grado della scala Mercalli. “Ho perso molti amici e conoscenti quella notte, è stato davvero terribile”.

La voce narrante è quella dell’allora sindaco della cittadina belicina, Vito Bellafiore, classe 1929, che ha fissato in maniera indelebile quei ricordi nella mente. “Raccontare cosa provammo quella notte è quasi impossibile. Solo i sopravvissuti a un tale disastro possono comprendere a fondo lo stordimento, il terrore, la paura mentre la terra non smetteva di tremare. Eravamo soli. Per i primi due o tre giorni nessuno parve accorgersi dell’immane disastro che aveva colpito la Valle del Belice.

Poi cominciarono ad arrivare i giovani quarantottini, quelli allora famosi per contestare tutto e tutti, a darci una mano. A cercare di tirare fuori dalle macerie i feriti. Ad accendere fuochi per scaldare coloro che seppur sopravvissuti al terremoto continuavano a vagare storditi e assenti. Ricordo di una donna dal forte accento toscano che tre giorni dopo il sisma arrivò a Santa Ninfa in macchina col suo compagno e con ogni ben di Dio da distribuire alla popolazione. Latte, pannolini per i più piccoli, pasta per gli anziani.

Non ricordo come si chiamasse ma ricordo che mentre ripartiva fece fermare l’auto per dare e sue scarpe a una donna che vagava in mezzo al fango con i suoi due figli. Le sue avevano perso la suola e lei non se ne era nemmeno accorta”.

Cadde la neve quella notte, una coltre bianca a coprire le macerie di un paese sventrato e sconquassato. Subito dopo venne la pioggia, la neve si sciolse e al bianco pudico si sostituì il nero putrido del fango.

Quella notte poteva andare molto peggio – riprende il filo dei suoi ricordi il senatore Bellafiore, sindaco di Santa Ninfa per oltre trent’anni -. Nel pomeriggio del 14 c’erano state diverse scosse di terremoto e la maggior parte della gente era già fuori casa. Quella notte in molti erano già all’aperto, nei giardini o nelle macchine. Altrimenti la conta dei morti sarebbe stata ben più alta. Avevo 39 anni e due figli piccoli da mettere al sicuro. E tutti che chiedevano aiuto, piangevano e urlavano.

Alcuni riuscirono a trovare riparo nei magazzini rurali in aperta campagna, rimasti danneggiati ma non completamente crollati. Ma la maggior parte di loro si accampò in auto. Fuori si facevano dei fuochi per cercare di vincere il freddo penetrante di quei giorni. Poi cominciarono ad arrivare i primi soccorsi da parte dei volontari e dei privati cittadini. Lo Stato non c’era. Non c’erano i nuclei della Protezione civile allora, nessuno sapeva cosa fare. Molte delle vie di collegamento erano interrotte, alcuni ponti crollati.

Sembrava un incubo ma eravamo tutti svegli. Quelli che non morirono quella notte ricorderanno per sempre le ferite ancora aperte di quel disastro. Siamo dei sopravvissuti. Poi, settimana dopo settimana, qualcosa si cominciò a muovere. Arrivarono i primi moduli abitativi, si direbbe oggi: capannoni in lamiera che d’estate si trasformavano in veri e propri forni di giorno e in ghiacciaie di notte. L’energia elettrica andava e veniva e per l’acqua si andava fuori con i secchi. Passammo poi alle baracche, 24 metri quadri per una famiglia di 4 persone, con all’interno il bagno, la cucina e la camera da letto.

Anche questa doveva essere una sistemazione provvisoria ma durata decenni. Solo alla fine degli anni ’70 dalla Regione arrivò l’autorizzazione per trasformare i contributi per la costruzione di magazzini rurali in piccole strutture abitative, a un solo piano. Con queste 400mila lire la gente cominciò a costruire piccoli ripari in muratura nelle campagne e ad abbandonare le baracche. Otto anni dopo, nel ’76 il terremoto fece la sua comparsa in Friuli. Stessa intensità, stessa porzione di territorio interessata, 100 mila, come nel Belice, le persone coinvolte nella catastrofe.

Per la ricostruzione del Nord Italia lo Stato stanziò 18mila miliardi di lire. Inviò l’Esercito e un suo uomo a gestire l’emergenza e la ricostruzione, Per il Belice invece furono stanziati 3 mila miliardi e l’organizzazione del post terremoto fu affidata a un garbato burocrate che per ottenere un autorizzazione o una risposta impiegava settimane se non mesi. Ancora una volta, la Valle del Belice povera e disagiata, rappresentò lo spaccato del Mezzogiorno d’Italia”.

Cinquantaquattro anni dopo, in Sicilia occidentale, la ricostruzione dopo il sisma del ’68 non è ancora stata ultimata.

di Carmela BARBARA

La rubrica Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

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