di Valentina ARDUINI Il mio orologio biologico è fermo a cinque giorni fa. Come ogni anno, da quando iniziai a dedicare la mia vita alla storia dell’arte, il 6 marzo è sempre stata una data importante. All’apparenza una data qualunque, ma il 6 marzo del 1475 nacque un artista che ha fatto grande l’arte nei secoli e nel mondo: Michelangelo Buonarroti. Chi, come me, ha intrapreso la strada della storia e della critica d’arte difficilmente potrà dire che un determinato periodo artistico non è bello: noi amiamo tutta l’arte, la rispettiamo e ne riconosciamo il valore; ma, a volte, capita che un artista ti entri dentro più di altri e questo è ciò che è accaduto a me con Michelangelo.
Buonarroti, il grande scultore del Cinquecento; colui che “nacque con lo scalpello in mano” e che, tre giorni prima di morire ottantanovenne, nella notte tra il 17 e il 18 febbraio del 1564, stava scolpendo la Pietà Rondanini. Da cinque giorni rifletto sulla vita di Michelangelo, quella scelta forzata che fece nel 1508 torna costantemente nella mia mente, sia a lezione con i miei studenti sia a casa seduta sulla poltrona, quel sì a Giulio II della Rovere, quel sì alla volta della Cappella Sistina.
In quel sì, da giorni, vedo l’espressione delle scelte che ogni uomo si è trovato, si trova e si troverà a fare. Per capire cosa intendo, vale la pena fare un passaggio storico della vita dell’artista in quel periodo. Michelangelo, da sempre chiamato alla scultura, tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento aveva già realizzato delle opere scultoree che hanno fatto storia: la Pietà vaticana, del 1498-99, e il David, del 1501-1504. Ormai celebre, nonostante la giovane età, il Buonarroti nel 1505 fu invitato a Roma da papa Giulio II, che gli commissionò un’opera di grandissimo prestigio: la realizzazione della tomba monumentale del pontefice, da erigere nella Basilica di San Pietro, proprio in corrispondenza del luogo in cui si riteneva fosse stato sepolto l’apostolo.
L’impresa fu accettata senza indugi da Michelangelo che, nell’idea primaria del progetto, aveva previsto l’edificazione di una tomba circolare con annesse 42 statue marmoree a tutto tondo, con quella del papa che sorgeva sul sarcofago collocato a coronamento della struttura. Purtroppo per il Buonarroti, l’entusiasmo che lo spinse a lavorare di buona lena e stare per quasi un anno a Carrara per la scelta dei marmi adatti all’impresa, andò velocemente scemando a causa dello stesso Giulio II.
A distanza di solo un anno, nel 1506, papa Giulio II interruppe i lavori al suo monumento funebre per commissionare a Michelangelo un altro lavoro: a realizzazione degli affreschi della volta della Cappella Sistina. Da qui nasce il mio tormento e la mia domanda: come ha fatto a dire di sì? Immaginate la scena: io, Michelangelo Buonarroti, sto lavorando giorno e notte ad un’impresa enorme che sigillerà il mio nome nei secoli quale il più grande scultore esistito sulla terra e un giorno, così senza preavviso, vengo richiamato al cospetto del papa, il mio committente, che mi dice di depositare scalpello e martello e dedicarmi a dipingere cinquecento metri quadrati di soffitto.
Non viene difficile pensare che Michelangelo si sia adirato col pontefice: d’altronde presso il papa erano già presenti pittori rinomati e, di lì a poco, ne sarebbe presto arrivato un altro che farà la storia: Raffaello Sanzio. Perché dipingere la volta? Perché lui e perché in quel momento? Ai perché forse risponderemo in un futuro lontano, sta di fatto che lui, ad un certo punto, disse sì. Un sì costato fatica e sacrificio; una sofferenza fisica e mentale, durata quattro anni, una sofferenza legata ad un monosillabo: sì.
Ebbene, dal 1508 al 1512, Michelangelo, da solo, ricoprì cinquecento metri quadrati di soffitto, creando quel capolavoro che ci toglie il fiato ogni volta che la guardiamo: la volta della Sistina. Quel turbinio di colori, di movimenti, di torsioni e di espressioni che vediamo raffigurati, celano l’anima alta di Michelangelo. Al di là di una lettura iconografica delle scene e della loro distribuzione a parete, ciò che colpisce è la monumentalità dei personaggi. La loro fisicità richiama alla scultura, Michelangelo scolpisce dipingendo, la sua natura non si può soffocare.
Per non lasciarci coinvolgere solo superficialmente dalla Sistina, vale la pena guardare alla rima 5, scritta da Michelangelo, in questo periodo. Scrivendo all’amico Giovanni, nella terzina finale della Rima, dopo aver lungamente descritto la posizione in cui si trovava a dipingere, la fatica fisica e la frustrazione provata, il Buonarroti termina così: La mia pittura morta difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore, non sendo in loco bon, né io pittore. Pittura morta, onore, non loco bon né pittore.
Michelangelo soffre il dolore di chi si vede portato via dalla propria strada, dalla propria vocazione e ne vede il fallimento di un’intera esistenza e cerca disperatamente aiuto per mantenere un minimo di nome. Questa è la Sistina. Ogni volta che leggo la rima 5 e la parte finale mi emoziono, non riesco a rimanerne indifferente. Ciò che noi guardiamo con ammirazione è stato per Michelangelo sofferenza, estraniarsi da se stesso; ed è qui che Michelangelo diventa esempio della vita di ogni uomo.
Ognuno di noi, nella propria vita, ad un certo punto ha capito cosa voler essere o diventare. Una vocazione che fa capolino in giovane età e si consolida, se va bene, con il tempo. Anche riuscissimo ad intraprendere la strada dei nostri sogni, arriverà il momento in cui quella strada potrebbe prendere una deviazione o fermarsi davanti a noi. Sconfitta? Errore di valutazione della propria esistenza? Oppure prova? Ciò che sentiamo dentro di noi, quando percepiamo di essere chiamati a qualcosa non può trovare come fine ultimo noi stessi.
Quando ci sentiamo chiamati, quel sì che diciamo non lo pronunciamo a noi stessi; se così fosse, il tutto si consumerebbe velocemente. Il sì che gridiamo è all’altro, all’Altro. Il sì di Michelangelo non è solo il sì a Giulio II, è il sì a Dio. In quella minuscola parola affermativa si trova la scelta per gli altri; si trova il rendersi strumento al servizio di Dio per l’umanità. Si trova il sapersi ridimensionare, umilmente; lottare con i propri limiti e lasciarsi guidare, anche nello sconforto.
Significa creare un capolavoro, si chiami Cappella Sistina o si chiami vita. La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna. Per contatti, suggerimenti, articoli e altro scrivete a: amicidipenna2020@gmail.com