C’erano dei lunghi rami d’aranci intrecciati a fare da cornice alle montagne di carta da pane, spruzzate di verde e c’era il muschio soffice e umido raccolto sulle pietre dei muri a secco delle strade di campagna a fare da culla. E profumo di biscotti ricamati come trine dai forni che scaldavano le case e musica di musicanti per la novena.
E poi era scena che prendeva vita fino alla notte santa, quando con due dita, delicatamente, si toglieva la bambagia che copriva il mistero e il Bambinello apriva le braccia ad accogliere l’umanità che, nel buio , aveva visto la luce.
Il rito si ripete nei presepi delle nostre case, in un istante senza tempo. Ma oltre le pareti della nostra casa sicura, ci sono molti altri presepi.
Ce ne sono tanti in fondo al mare dove non arriva la luce della stella e Gesù bambino è il piccolo dalla maglietta rossa che non ha trovato ristoro nei porti dei ricchi.
Ce n’è uno straziante, al confine tra Polonia e Bielorussia, e l’Atteso è una bimba che corre piangendo scalza nella neve, e poco più avanti un altro bambino che trema sotto una coperta di foglie di betulle e non piange più perché le guardie, i soldati del nuovo Erode, sono pronti a sparare.
C’è un altro presepe nel quartiere di una piccola città di provincia, sventrato da una esplosione di incuria e, forse, di fatalità e il Gesù è un bimbo mai nato, passato dal grembo della madre al suo mantello in cielo.
Ed eccolo quel presepe in Africa, nei paesi in guerra: Gesù è uno di quei bimbi che muore prima di aver compiuto 5 anni per fame, per miseria, per malattia o per essere saltato su una bomba e quell’altro che, sopravvissuto, imbraccia un mitra perché è mandato come carne da macello a morire in una guerra che non capisce. E poi in Siria, nello Yemen, in Afghanistan…
E quel presepe giù in fondo al mondo? Il Salvatore è un bimbo a cui non arrivano vaccini, farmaci, istruzione e che succhia ai seni lunghi e vuoti di una madre bambina che sembra già una vecchia.
Quello invece è il presepe dove si compie lo scempio della mutilazione e Gesù è la bambina che viene tagliata perché il suo corpo soffra e non provi la gioia dell’amore.
C’è poi il presepe delle carceri, dove il Gesù è il bambino che vive con la madre la reclusione e l’isolamento dal mondo.
Quell’altro invece, è il presepe dei quartieri popolari, dei sotterranei delle metropolitane, delle periferie degradate, dell’abbandono, dello sfruttamento sessuale, del lavoro nero…e Gesù è negli occhi di tutti quei bambini che non trovano casa, accoglienza, protezione, educazione, assistenza.
C’è nei presepi tradizionali, una statuina raffigurante un pastore che dorme. In Sicilia si chiamava “susi pasturi”, àlzati, come vuole l’esortazione degli angeli. Nel presepe del mondo, in cui si celebra la vita, spesso noi siamo come quel pastore addormentato, che non solo non vede la meraviglia del miracolo ma non ascolta neanche il grido d’aiuto che si leva da ogni parte.
Ci vorrebbero una Madonna e un Padre Giuseppe per ogni Gesù, e dei pastori generosi che portino doni e aprano gli occhi e si sveglino e accendano fuochi d’amore e di speranza perché nessuno sperimenti il freddo e il gelo della grotta del corpo e dell’anima.
Mentre sistemiamo le statuine nei presepi della nostra vita, facciamoci angeli che annunciano la lieta novella e pastori che aprono gli occhi e spalancano braccia e cuore.
Che ci siano pace vera, e doni d’amore, per tutti. Buon Natale, ogni giorno.
di Maria LISMA
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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