Come accade sempre a qualsiasi evento di cronaca specialmente se tragico e “faccia notizia” come quello della morte di una persona che si chiama Pasquale, in un luogo che si chiama Mazara del Vallo, si accendono i riflettori per un tempo determinato dove tutti hanno il diritto/dovere di scrivere come pensano siano andate le cose e soprattutto la cosiddetta opinione pubblica “racconta” ogni giorno, nei diversi bar della città, vizi e virtù della persona che ci ha lasciato (a onor del vero ho sentito parlare di molti vizi e poche virtù).
Chi era veramente Pasquale che è stato trovato morto in una pozza di sangue con il cranio fracassato in una triste mattina di un tiepido giorno di fine aprile. Era forse una persona che ha vissuto cinquantatré anni sempre ai limiti con un passato di tossicodipendenza, di delinquenza, di cattive compagnie, di non rispetto di nessuna regola del vivere civile? O forse era una persona che non si bucava più da diciassette anni, che aveva pagato i suoi debiti con la giustizia, che cercava in tutti i modi e con le mille risorse che aveva un riconoscimento sociale nella sua comunità? O forse ambiguamente continuavano a essere tutte e due le cose? Che cosa vuol dire essere o essere stato tossicodipendente? Lo chiediamo a una persona che ha vissuto un periodo turbolento con le droghe e ci racconta chiaramente cosa vuol dire in una sua canzone.
Ovviamente l’autore è Eugenio Finardi e la canzone è Scimmia… ll primo buco l’ho fatto una sera a casa di un amico così per provare e mi ricordo che avevo un po’ paura c’è molta violenza in un ago nelle vene ma in un attimo una fitta di dolore un secondo ad aspettare poi un onda dolce di calore quasi come nell’amore e poi mi son lasciato andare completamente rilassato in un benessere artificiale come mai avevo provato. Ma poi a casa me lo sono giurato che io no non ci sarei cascato io lo imparerò ad usare mi saprò gestire non mi farò fregare e invece continuavo a pensare e non mi usciva dalla mente e man mano passava il tempo diventava la cosa più importante e poi non me ne frega niente di quello che dice la gente tanto siamo tutti assuefatti di cosa non importa niente.
E continuavo ad aumentare mi facevo quasi tutte le sere e appena fatto mi scoprivo a temere di non riuscirne più a trovare e poi ore e ore e ore fuori da una farmacia ad aspettare e quello stronzo di un dottore che non me ne vuole dare Ma a lui che cazzo gliene frega ma un giorno me la paga un giorno passo con un sasso e gli faccio la vetrina nuova. E dai prestami una fiala è da sei ore che mi sbatto se non mi faccio uno stenolo stasera lo sai divento matto. Poi per due anni non ho quasi fatto altro non ho suonato non ho fatto l’amore tiravo il tempo tra un buco e l’altro in giro a sbattermi o a casa a dormire.
Ma una mattina mi sono chiesto come andrà a finire andare avanti finire in galera magari anche morire e poi così non può durare sta diventando quasi come un lavoro otto ore in giro a sbattermi ma oramai sballo poco anche con l’ero E poi sto perdendo tempo e sprecando quello che ho dentro io così non sto crescendo mi brucio ma mi sto spegnendo e smettere non è poi così difficile non fa neanche tanto male basta un po’ di cura e di comprensione, magari un po’ di metadone e fuori c’è tutto un mondo da scoprire sul quale si può intervenire e se tieni duro sei mesi vedrai che poi non ci ripenserai quasi mai.
Ho sempre avuto paura della violenza di questa canzone (
che secondo me fotografa perfettamente l’esperienza della tossicodipendenza. Tanti autori l’hanno raccontata negli anni settanta: Venditti con la sua “Lilly” ( CsBHxxWd_ys) o ai giorni nostri “21 grammi” di Fedez (7uq9dQ-cbQw), ma ribadisco, la cruda violenza che c’è in scimmia di Finardi rappresenta fedelmente il cosiddetto “tunnel della dipendenza”. Non ho mai fatto uso di sostanze di nessun tipo grazie sicuramente all’educazione che ho avuto dai miei genitori, all’esperienza dello scoutismo, o forse perché più semplicemente sono stato fortunato, ma credo che questo testo di Finardi abbia contribuito non poco a formare dentro di me un sano pensiero sulla dipendenza.Ho conosciuto Pasquale nel 1999, in quel periodo lavoravo come animatore all’interno di un servizio gestito dalla Casa dei Giovani di Padre Lo Bue, il centro aveva un titolo interessante, infatti, si chiamava “Centro di cultura della vita e psicoterapia” che accoglieva ragazzi come Pasquale entrati nel tunnel della tossicodipendenza. Certo il lavoro non era facile, si trattava di ribaltare alcuni schemi propri della tossicodipendenza, che più si avvicinano alla cultura della morte, in schemi positivi che rientrano nella cultura della vita.
Durante quel periodo ho visto tanti ragazzi e ragazze che non c’è l’hanno fatta; alcuni sono morti di overdose, altri non sono riusciti a modificare minimamente il loro pensiero distorto, altri (purtroppo pochi) hanno iniziato con molta sofferenza a cambiare il loro atteggiamento verso la vita. Uno di questi è stato Pasquale che si è aggrappato con le unghie e con i denti alle tante risorse positive che aveva dentro, ed è riuscito anche grazie al metadone a non bucarsi più, a scontare in carcere il suo debito con la giustizia, e tentare in tutti modi di condurre una vita normale all’interno della sua comunità, che lo avrebbe dovuto aiutare nel difficile reinserimento sociale.
Sono passati diciassette anni da quel periodo, e ho avuto modo di continuare a stare vicino a Pasquale, anche perché abbiamo continuato entrambi ad abitare lo stesso luogo, Mazara del Vallo, per cui le occasioni di vederci sono state sempre tante, ci siamo spesso confrontati sulle difficoltà che lui viveva nel sentirsi “etichettato” come un animale da macello, e perché chi ha sbagliato nella vita non sempre ha diritto a una seconda possibilità. Ho sempre cercato di stargli vicino nella normalità e credo che i miei figli abbiano imparato molto più da lui che da tante altre cosiddette “brave persone”.
Caro Pasquale adesso che si sono spente le luci spero che nel posto dove ti trovi, tu riesca a leggere questa lettera; perché volevo dirti che mi dispiace non aver capito fino in fondo il tuo malessere che negli ultimi mesi mi manifestavi, e volevo anche dirti che le lacrime che ho versato per la tua morte sono le stesse lacrime che ho versato per la perdita dei miei affetti, più cari e soprattutto volevo dirti che mi mancherà tanto non vedere più le tue gambe storte. Francesco Sciacchitano