Nel corso della carriera scolastica di tutti noi, in materia di Storia dell’arte, ci siamo imbattuti in artisti che hanno fatto grande la pittura, la scultura e l’architettura nel corso dei secoli. Abbiamo ammirato grandi capolavori sui libri, passando spesso molte ore a studiare tutti i dati presenti su quei volumi. Ogni opera studiata fa parte di quel patrimonio culturale che determina chi noi siamo, quali sono le nostre origini e nostro compito è far sì che chi verrà dopo di noi possa goderne ugualmente. Da quando ho iniziato a insegnare e a vivere le mura scolastiche sotto un’altra veste è maturata la consapevolezza che la conoscenza della Storia dell’arte non è mero nozionismo.
Se ci si limitasse a ciò, la nostra testa si riempirebbe di date inutili che, anche col passare del tempo, non riempirebbero la nostra vita di messaggi universali, in grado di dirci qualcosa anche ora. Ma se con l’arte del passato, in qualche modo, questo problema è superabile, più ci avviciniamo ai nostri giorni più la difficoltà di capire aumenta. “Prof, io l’arte moderna non la capisco”…quante volte mi sono risuonate queste parole in testa e, a pensarci bene, non sono poi così sbagliate.
L’arte, uno dei mezzi fondamentali nella storia dell’uomo per la conoscenza della Verità, ha perso col tempo, e soprattutto nel XX secolo, quella capacità comunicativa che l’ha sempre contraddistinta. Tuttavia, nel panorama contemporaneo, esistono artisti che fanno della Bellezza e della Verità la loro vocazione, portandoci a scoprire e riscoprire la meraviglia del creato e della vita, i suoi valori universali e la fiducia nel futuro. Decisi di inserire Safet Zec nella lezione sui pittori romantici tre anni fa.
Stavo preparando la lezione su Théodore Gericault quando rimasi minuti interi a fissare l’opera sua più famosa “La zattera della Medusa”. L’opera, datata al 1818-1819 e ubicata al Louvre, è una chiara denuncia di quanto accadde il 18 giugno 1816: la fregata ”Medusa” salpò dalla Francia per portare a Saint-Louis in Senegal circa quattrocento uomini, tra cui il governatore e i funzionari destinati alla colonia francese. Il dramma avvenne il 2 luglio dello stesso anno, la nave naufragò su una secca e dopo inutili tentativi di riportarla a galla, poiché le scialuppe non potevano contenere tutti, fu costruita una zattera sulla quale vennero stipati centoquarantanove uomini.
Abbandonati in mare e privi di viveri, gli uomini presenti sulla zattera furono recuperati dopo 12 giorni dal brigantino “Argus”, furono trovate vive solo quindici persone. Inutile dire come un’opera di questo genere tocchi l’animo per l’atrocità della storia narrata e nonostante si tratti di un evento di circa 200 anni fa, la nostra coscienza ci porta a riflettere su quanto sentiamo quotidianamente ai telegiornali. L’opera di Géricault, costruita sapientemente con una struttura piramidale, è un grido disperato di salvezza, rappresentato dalla figura di spalle al vertice della composizione che, con un brandello di bandiera in mano, compie il tentativo ultimo di farsi vedere dalla nave percepibile in lontananza; seguendo con lo sguardo l’opera dal basso verso l’alto ci si accorge che ogni personaggio rappresentato è parte integrante e fondamentale di una sorta di ascensione, dai cadaveri distesi malamente sulla pavimentazione della zattera, passando dai personaggi arrancanti in ginocchio nella parte centrale del dipinto, si arriva a chi, con un ultimo sforzo vitale, si erge nel tentativo di salvare se stesso e chi è con lui.
L’intensità dell’opera di Géricault sta nel fatto che la figura più alta sia di schiena. Non caratterizzare il volto del personaggio non porta all’annullamento dell’identità ma all’identificazione possibile di ognuno di noi in quella persona. Ma i drammi che l’uomo si trova a vivere non avvengono solo in mare. Conobbi Safet Zec nel 2017, in occasione della mostra che feci al VII Festival della Dottrina Sociale della Chiesa a Verona dal titolo “La missione dell’arte tra tradizione e contemporaneità”.
A quell’evento furono esposte opere di cinque artisti contemporanei figurativi, fra cui lui, conosciuto grazie ad un altro artista e amico in mostra, il prof. Rodolfo Papa. Nato in Bosnia nel 1943 e trasferitosi durante la seconda guerra mondiale a Sarajevo, Zec è figura centrale del movimento artistico chiamato “Realismo poetico”. La sua vita scorre felicemente fino allo scoppio della guerra in ex Jugoslavia che obbliga l’artista e l’uomo a lasciare il proprio paese. Trasferitosi in Italia, prima a Udine e successivamente a Venezia, Safet Zec deve ricostruire la sua vita, artistica e non, con la consapevolezza che, a conflitto finito, le opere lasciate in patria potessero essere andate totalmente distrutte.
Contro ogni previsione negativa, le opere si sono salvate e dalla fine del conflitto l’artista ha ripreso un’assidua frequentazione con la sua terra. Nel cuore di Sarajevo, lo Studio-collezione Zec è stato riaperto ed è ora un centro di iniziative culturali, oltre che sede espositiva delle sue opere. Conoscere la storia e il vissuto di Safet Zec mi ha portato a capire l’intensità del messaggio all’interno delle sue opere. Quando entrai nel suo studio di Venezia fui travolta da sguardi incredibili trasferiti su tela o supporti di materiali diversi messi insieme.
Non si poteva non rimanerne affascinati, quei volti con i tratti tipici dei serbi, erano carichi di un’emotività e di un sentimento che non si poteva inventare ma si doveva aver vissuto e visto di persona. L’uomo che mi si palesò davanti era un uomo gentile, lo si vedeva dallo sguardo: sorrideva con bontà con gli occhi ancor prima che con la bocca. Attorno a me un ambiente grande e neutro, come neutro è il colore predominante nelle sue opere che quel giorno, facevano da scenografia alla nostra chiacchierata.
Guardai con lui i suoi dipinti, ne avrei chiesti in prestito tre e, onestamente, quando partii da Verona quel giorno, ero fermamente convinta di chiedere in mostra i sui ritratti. Ma la mia attenzione cascò su tre dipinti in cui i volti non comparivano; i soggetti di quei tre quadri erano le mani. Mani nodose, mani vecchie, mani di lavoratori. Mani dai nervi tesi, sormontate, aperte e rivolte verso l’alto dove, nel caso dell’opera che mi colpì maggiormente "Mani per il pane" del 2010, si nota del pane calato dall’alto.
La forza di quegli arti mi ha riportato alla mente le braccia di un bambino che, disperato, cerca, allungandosi più che può, il conforto e l’abbraccio di una madre. È il bisogno, la necessità di amore. Nella disperazione e nella tragedia l’essere umano brama ciò che di più caro gli è stato donato, la vita. È la mancanza e l’assenza di qualcosa di vitale; il pane, per quanto oggetto materiale, è insieme all’acqua il nutrimento primo dell’uomo. Se questo mancasse, in ugual modo se mancasse l’amore, mancherebbe la vita.
Il dipinto di Safet Zec, come quello di Géricault, scuote l’animo e ci porta a riflettere su come l’uomo sia uomo e nostro fratello; su come l’ingiustizia, causata da negligenza, da guerre, da discriminazioni, da indifferenza leda non solo l’altro ma in primis il nostro essere umani. Non dobbiamo chiudere gli occhi…dobbiamo essere la nave di salvataggio o le mani che allungano il pane a chi ne ha bisogno, dobbiamo farci strumento di salvezza e speranza per il mondo.
di Valentina ARDUINI
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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