Ieri mattina 16 marzo 2020 ho postato su Facebook un articolo dal titolo “16 marzo 1978: le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro uccidendo gli uomini della sua scorta”, l’articolo dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Roma inizia così “Il 16 marzo1978, giorno della presentazione del nuovo governo Andreotti, l’auto che trasportava Moro dalla sua abitazione alla Camera dei Deputati, fu intercettata da un commando delle Brigate Rosse all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa.
Le Brigate Rosse uccisero, in pochi secondi, i cinque uomini della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi) e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana”. Questo pomeriggio mi sono accorto che è stato condiviso da circa centosettanta persone, e mi sono chiesto perché ha distanza di quarantadue anni questo triste episodio della storia italiana riscuote così tanto interesse? In questi quarant’anni sul caso Moro sono stati scritti fiumi di parole ed io non ho chiaramente la pretesa di scrivere chissà quali verità, ma voglio raccontare un esperienza che ho vissuto che vede coinvolta Agnese Moro, figlia dello statista DC rapito e ucciso dalle BR e Adriana Faranda ex BR componente del gruppo armato che pianificò il sequestro di Aldo Moro.
Era il 27 settembre dello scorso anno, mi trovavo a Bologna per il Festival Francescano “Attraverso PAROLE prove di dialogo”, che quella sera sul sagrato di San Petronio accanto a Piazza Maggiore ho visto due donne raccontare le loro esperienze di vita, due donne che da un punto di visto culturale e sociale non potevano essere più distanti di così ma che un percorso faticoso e doloroso è riuscito ad avvicinare. Agnese Moro e Adriana Faranda: “Il dolore si può portare insieme”, questo è stato il titolo di quell’incontro, le due donne sedute vicine nello stesso tavolo, con accanto l’arcivescovo (adesso Cardinale) Matteo Maria Zuppi, che si ascoltano l’un l’altra in questo incontro straordinario organizzato dai frati Francescani.
Agnese e Adriana si chiamano tra loro, si guardano negli occhi, si versano l’acqua da bere, si sorridono, ma soprattutto si ascoltano. Non è la prima volta che si trovano insieme a raccontare la storia del lungo percorso che le ha portate a “comprendere l’altro da sé”. Così profondamente diverse ma anche così uguali, tanto da usare spesso le stesse parole: dolore, rabbia, giustizia, comprensione, perdono. Agnese Moro scandisce i nomi degli uomini della scorta uccisi in via Fani il 16 marzo 1978, e in Piazza Maggiore cala il silenzio, allora Agnese continua con tono sommesso: “La storia la conoscete, io voglio raccontare qui quello che mi è successo dopo.
Quando gran parte degli esecutori materiali dell’assassinio di mio padre erano stati individuati, processati e condannati grazie a una giustizia che aveva fischiato dei falli, ricordando che in Italia non veniva accettato un modo di fare politica con le armi e gli omicidi. Era stato importante perché in quel momento non era scontato fosse così. Per quanto spesso si dica il contrario, la lotta armata era stata sostenuta da un larghissimo numero di persone di rilievo anche del mondo della cultura.
La giustizia aveva fatto il suo corso ma le mie ferite erano rimaste uguali. Si dice: il tempo guarisce tutto. Non è vero. Il tempo incacrenisce, solidifica le cose, non permette loro di evolversi. Io soffrivo la dittatura del passato, quel passato che si ripeteva ogni giorno. La mia vita era agganciata a un elastico. Andavo avanti, facevo molte cose, ma non sapevo mai in quale momento quell’elastico mi avrebbe riportato indietro, se si sarebbe allungato per sempre o se un giorno si sarebbe spezzato.
Ero come un insetto in una goccia d’ambra, da dove non avevo modo di uscire.” Poi improvvisamente dopo 31 anni dalla barbara uccisione del padre, nel 2009 Agnese ha pensato di dire basta a tutto questo male onnipotente, di non alimentarlo più, e l’unico modo di fermarlo era scegliere di perdonare. L’occasione gliela dà padre Guido Bertagna sacerdote gesuita, che gli propone di prender parte a un gruppo di lavoro che intendeva far incontrare le vittime con gli autori del terrorismo.
Grazie a questo percorso proposto dal sacerdote gesuita dalla cui esperienza ha scritto “Il libro dell’incontro” e da tante altre persone che l’hanno aiutata a “non sbagliare strada” in questo difficile percorso di avvicinamento da chi ti ha privato degli affetti più cari, adesso Agnese può guardare Adriana e dirle: “Fino a quel momento il dolore era solo mio, e di chi come me aveva sofferto per causa loro: Ho scoperto invece che era anche di chi si è reso responsabile di ciò che non poteva più essere rimediato.
Era dolore il mio, era dolore il loro: Un dolore che nessuno potrà mai toglierci, ma che si può portare insieme.” Se per Agnese Moro la vita è stata per più di trent’anni un “dopo” il 16 marzo 1978, che ogni giorno tornava presente, per Adriana Faranda c’è anche un “prima” di cui dice subito che non parlerà. Parlerà del suo percorso di “giustizia riparativa” lasciando trasparire molto di quello che è stato, ma non tutto. E anche se non lo dice, la strada verso la serenità per lei sembra essere ancora molto lunga.
Adriana Faranda apre il suo intervento con un tono di voce che non cambierà mai dicendo: “Con i famigliari di vittime delle nostre azioni avevo già avuto in passato incontri, anche se occasionali, limitati nel tempo, soprattutto solitari. Ma quando Guido Bertagna mi ha contattato ho reagito con perplessità. Mi si chiedeva un impegno che avrebbe richiesto costanza, volontà e anche molta sofferenza perché avrebbe inevitabilmente riportato il passato al presente. Temevo avrebbe potuto fare ancora del male ai miei famigliari, che avevano già sofferto tanto.
E a mia figlia, che aveva patito la mia assenza ed era stata discriminata proprio perché mia figlia. Ma sentivo che così avrei potuto chiudere il mio percorso di vita. Ho scelto quindi liberamente di intraprendere un cammino di giustizia riparativa. Avevo scontato la mia pena ed ero tornata persona libera. Ho potuto quindi decidere di guardare me stessa e di vedere, nel volto di chi avevo irrimediabilmente ferito, le conseguenze delle mie scelte. Eravamo partiti da un idea di giustizia dice riferendosi alla scelta di far parte delle Brigate Rosse ma siamo arrivati a compiere la più grande ingiustizia, che è quella di ledere il diritto fondamentale di ogni essere umano: il diritto alla vita.
Un peso di cui non ci si può liberare, perché certe cose sono irrimediabili. Non possono essere più sanate.” Ed alla domanda che gli viene posta su che cosa l’ha spinta ad incontrare Agnese Moro, lei risponde sempre con lo stesso tono di voce: “Far sì che potesse rimproverarmi: la riparazione era per me questo. Poter dare la possibilità di urlarmi in viso tutta la sofferenza, il dolore, l’odio, il disprezzo. Era giusto così. Perché una persona che è stata ferita atrocemente ha il diritto di dirti quello che ha dentro il cuore.
Io non avevo nessun desiderio di difendermi.” Mentre Adriana pronuncia queste parole così intense Agnese le dà una carezza sulla spalla. Francesco Sciacchitano "