“Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, né s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine, dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali” (Bertolt Brecht, Poesie). Il fastidio di Brecht per l’analfabeta politico (spaventosamente contemporaneo), colpevole di far vincere politici magari non pronti, è fastidioso.
Sì, perché guardando i numeri (allora come ora) e non la luna cangiante si tende a giustificare le cocenti sconfitte delle élite e gli smarrimenti dei cosìdetti ceti riflessivi (ovviamente “brechtianamente” e sdegnosamente diversi dagli analfabeti politici) di tutti i tempi e a evitare di affrontare la questione vera. Tento di spiegarmi. Ci troviamo di fronte ad una sorta di rovesciamento. E’ deplorevole il solo comportamento dell’ignorante che odia la politica? Oppure bisogna porre prioritariamente l’attenzione su chi prende le decisioni politiche; interrogarsi se questi lo fanno avendo cura di comprendere, rappresentare e coinvolgere anche gli scettici, gli indecisi, gli arrabbiati, gli indolenti; se mantengono le promesse fatte; se sono competenti ed efficaci nel governare e nell’amministrare? E chi, se non i partiti, dovrebbero averne la cura e la responsabilità? Non parlo delle liste civiche nate soltanto per accumulare o perdere voti! Si può perdere, in democrazia ci sta.
Fa parte delle regole del gioco. Le sconfitte sono preziose, a volte più delle vittorie, perché obbligano, o almeno dovrebbero farlo, a riflettere, a riavvolgere il nastro all’indietro per rivedere una ad una le scelte che si sono fatte, non nei trenta giorni di campagna elettorale, ma nei mesi e negli anni. Si vince e si perde ovunque, non solo in Italia. Ma in Italia, più spesso che altrove, chi è vinto non accetta la sconfitta. Saper perdere racconta il declino, l’uscita di scena ma anche l’horror vacui di alcuni degli uomini più potenti del nostro Paese.
Politici che sono stati alla guida di un partito, o che hanno governato l’Italia per anni. Che hanno avuto a disposizione soldi e voti. Che hanno regalato sogni e speranze, e attirato invidie e diffidenze. E che prima o poi, inevitabilmente, hanno fatto i conti con il fallimento di un progetto o la fine di una carriera. C’è chi, ieri come oggi, grida al «colpo di Stato», chi invoca i «brogli», chi si scaglia contro le congiure, chi prepara rivalse e vendette, chi ostacola con ogni mezzo la sua successione e chi ostenta distacco, finge l’addio, ma prova a mantenere il controllo su poltrone e programmi.
Perché, a volte, saper perdere conta molto più di vincere. E soprattutto perché la sconfitta svela meglio di qualsiasi vittoria la natura degli uomini e la maturità di una democrazia.In politica si può essere solidali a una certa alleanza finché i membri di essa conservano una lineapolitica che è in accordo con gli interessi di ciascuno, ma non costituisce tradimento il fatto di non esservi più fedeli quando nell’alleanza prevale una linea politica diversa. Se un politico schierato sceglie il campo dell’avversario, non deve avere dubbi né provare alcun senso di colpa: non è un traditore, perché il piano politico non va confuso con quello etico-morale.
Il vero traditore, spiega lo storico, è solo “chi consegna la propria città per garantire la propria sicurezza o per procurarsi dei vantaggi personali”, oppure chi lo fa“per nuocere ai propri avversari politici”, non chi lo fa alla luce di un calcolo politico destinato invece a favorire il destino della propria patria. È questa la chiave di tutto il problema. È traditore solo chi lo fa per cattiveria, diciamo, o per mero egoismo individuale.
Nella politica, quindi, il tradimento non esiste e lo scioglimento unilaterale dei vincoli di appartenenza o dei giuramenti fa parte di un agire legittimo. Anzi, talvolta può essere un segno di saggezza.Tutto chiaro? Macchè, perché c’è un’altra tesi, un’altra storia. Il sommo Poeta, al centro dell'Inferno, assieme a Lucifero pone Giuda, Bruto e Cassio. Traditori di Dio e traditori dello Stato. Per Dante (Canto 34mo) il tradimento è il peccato più grande e imperdonabile, il meno giustificabile in assoluto.
Pietro tradisce Cristo per paura e debolezza, Bruto e Cassio tradiscono Cesare per ragioni politiche, Giuda per denaro. Pietro è perdonato e posto a capo della Chiesa, mentre i nomi di Giuda e Bruto evocano, ancora oggi, l'aberrazione della colpa e l'idea stessa del tradimento. Il tradimento ha una giustificazione? Paura e debolezza possono giustificare il tradimento mentre slealtà, tornaconto e interesse meschino non possono suscitare il perdono. In politica, per esempio, cambiare idea o posizione è lecito ma si pone il problema della lealtà verso gli elettori e verso il partito.
Sono escluse le liste civiche!!! Siano alla politica dei due forni? Distanti di secoli Brecht e Dante? Ci viene incontro la famosa frase di Tomasi Lampedusa: “Perché tutto rimanga com'è bisogna che tutto cambi”.
Salvatore Giacalone