Ultime della sera. Schietta o maritata

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
03 Agosto 2020 16:39
Ultime della sera. Schietta o maritata

Anche ieri sera son tornato in un noto locale tradizionale palermitano per passare una gradevole serata  in compagnia, godendo del fresco alla fine di una torrida giornata estiva e degustare alcune prelibatezze di cui vado ghiotto. Inutile dire che uno degli aspetti più belli consiste nel sedersi all’ ombra delle stelle ammirando la maestosa chiesa del Trecento che domina la piazza con la sua facciata austera , il suo raffinato rosone e gli affreschi della loggetta dalle cromie ormai sbiadite che mi stimolano a immaginare come potevano essere i toni originali appena dipinti.

Un cameriere mi porta il menù e inizio a leggere. Trattandosi di cucina tradizionale siciliana, molti piatti sono nominati e descritti in dialetto o, alcuni presenti solo nel dialetto, “italianizzati” per cui mi colpisce immediatamente una scritta: “schietta o maritata”. Chi conosce Palermo e i suoi peccati di gola, sa già di cosa sto parlando. Intanto, il tipico slang del dialetto palermitano fa sì che il termine “schetta” (ovvero nubile) diventi “schietta”, ovvero un termine italianissimo che mi rimanda ad ulteriori associazioni mentali.

Dunque il termine “schietta” in palermitano indica una donna nubile, non ancora sposata, e lo stesso termine, in italiano è un sostantivo femminile che indica una persona, una frase o una situazione sincera, trasparente, diretta. A questo punto corre obbligo  sottolineare come a Palermo, storicamente, il termine “schietta”, indica il piatto in questione in modalità semplice, mentre, col termine “maritata” (ovvero sposata), si indica appunto, la stessa pietanza con l’aggiunta di condimento.

E invece, con mio grande stupore, il cameriere venuto a servirci, alla domanda cosa comprendesse il condimento della “maritata”, ci dice esattamente il contrario, ovvero che la “maritata” non comprende alcun condimento mentre la “schietta”, si. Tutto ciò mi ha proiettato in una riflessione circa la schiettezza. Molti anni fa ormai, mi imbattei in una discussione con alcuni studenti al primo anno di un liceo bresciano, i quali si producevano in performances razziste nei confronti di immigrati, gente di colore e tutto quanto conosciamo bene.

Era l’epoca dei “Gabber” di radice neonazista olandese. La cosa faceva ancora più impressione in quanto si trattava di ragazzini appena usciti dalle medie. Sono questi i risultati di tutti i progetti sulla cittadinanza, sulla pace, sulla salute ecc. che dovrebbero creare i presupposti per una società sana e ben strutturata, e rimuovere quanti più ostacoli possibili alla convivenza civile? Ricordo che allora, la più agguerrita delle ragazzette, si difendeva dicendo: “be’ io almeno sono sincera, io lo dico che sono razzista, altri lo pensano ma non lo dicono”.

Successivamente venni a sapere che quel gruppo di ragazzini faceva parte di una nota formazione neonazista italiana che li allenava a difendersi dalla “cultura buonista”. Il loro metodo consisteva nel mantenere a scuola un comportamento assolutamente anonimo, a non manifestare apertamente le “loro idee” perché altrimenti avrebbero scatenato una reazione educante dalla quale sarebbero usciti sconfitti. Pubblicamente, dovevano avere l’aspetto di bravi ragazzi, fingere di aver compreso e introiettato sentimenti quali compassione, tolleranza, altruismo ecc.

per poter difendere i loro “veri valori” dagli attacchi di genitori, insegnanti, preti ecc.. Il loro motto era semplice: tutti sono razzisti ma noi siamo migliori perché abbiamo il coraggio per ammetterlo! Come un fiume carsico, questo episodio rimase assopito tra i miei pensieri almeno fino a quando, di recente, nel tremendo tam tam sui social, questo “argomento” della schiettezza non è tornato nuovamente in superficie con prepotenza. Osservando i vari commenti, possiamo notare come uno dei termini maggiormente inflazionati è “falso buonismo”, come a dire che la bontà non esiste, che i sentimenti di sincero e spontaneo altruismo non esistono, e nemmeno lo spirito di solidarietà verso i più deboli e gli emarginati.

Tutto sarebbe solo finalizzato, secondo chi usa questo termine, alla propaganda politica per tirare acqua a questo o a quel mulino, e o a nascondere i sentimenti di autentico razzismo e odio xenofobo di cui ci si vergogna. Insomma, tutti gli esseri umani in ultima analisi sono malvagi e razzisti, l’unica differenza consiste nel fatto che alcuni lo dichiarano apertamente, gli “schietti”, mentre gli altri, in realtà sono solamente degli ipocriti che non hanno il coraggio di ammetterlo. E così, mi è capitato di imbattermi in altri post che inneggiano alla schiettezza: “te lo dico in faccia cosa penso” “noi siamo diretti, diciamo ciò che pensiamo”.

A parte la storia del noi e del voi… ma questo sarà oggetto di un altro articolo, sono convinto che si stia facendo strada un pensiero funzionale che credo vada estirpato prima che divampi come un dogma, fratello di altri illustri precedenti. Penso che il centro di tutto risieda nella coscienza. La coscienza della maggior parte delle persone è sana e perciò è restia ad adottare atteggiamenti negativi. Un atto di violenza verbale o fisica, assolutamente gratuito, contro un essere umano, è una cosa che scuote qualsiasi coscienza, perché ogni trauma, dolore o ferita, che sia visibile o no, ci rimanda ad una visione empatica, speculare, esperienziale.

Occorre perciò un antidoto per mettere a tacere la nostra coscienza, riuscire a dormire sonni tranquilli la notte: la schiettezza appunto. “Io sono un brava persona perché sono schietta, perché sono sincera, IO dico in faccia ciò che penso!” E così, eserciti di brave persone, ogni giorno di più, si abbandonano alla deriva dell’odio in ragione della schiettezza, diventata ormai l’unica virtù utile e che consente di poter dire e fare qualsiasi cosa sotto la bandiera della sincerità, della schiettezza appunto.

E invece no, non funziona così. La schiettezza, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, sicuramente è una virtù importantissima ma non può e non potrà mai costituire il lasciapassare per poter affermare qualsiasi tipo di nefandezza e di orribile pensiero e o comportamento. In certi casi si mente perché ci si vergogna di ciò che si pensa ma se proviamo vergogna per ciò che pensiamo, significa che la nostra coscienza è vigile, e forse non è perfettamente in sintonia con i nostri pensieri e perciò costituisce un segnale importante che dovremmo ascoltare, che dovrebbe farci riflettere, confrontarci con gli altri, capire.

“Allora signore? Ha deciso?” “si, per me, una maritata!”   Paolo Asaro

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