Ultime della sera. Il due novembre, quando la chiamavamo “festa”

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
02 Novembre 2020 17:51
Ultime della sera. Il due novembre, quando la chiamavamo “festa”

Quando eri piccolo la chiamavi “Festa dei morti”. E festa lo era per davvero. Era fatta di attese come tutte le feste, con l'immancabile sabato del villaggio animato di operosa trepidazione: i dolci fatti in casa, l'uscita con la mamma per acquistare il vestitino nuovo, il profumo di caldarroste e di olive appena raccolte nell'aria, il sapore dell'olio nuovo appena uscito dalla macina, il trionfo dei colori di pupe di zucchero e frutta martorana nelle vetrine delle pasticcerie, tutt'intorno l'odore di terra bagnata e foglie appassite lasciato dalle prime piogge autunnali.

Era tempo di cambio di stagione, l'autunno faceva sempre l'autunno con poche incertezze climatiche: puntuali arrivavano pioggia, temporali e il primo freddo. Quell'attesa dei Morti, come chiamavamo questa giornata commemorativa, era già festa nei nostri pensieri, nelle trame della nostra fantasia, nelle aspettative dei giorni che precedevano quella notte che affrontavamo sprezzanti di ogni pericolo, nonostante una malcelata  paura per  quei nonni e bisnonni che sarebbero tornati dal cielo a grattarci i piedi.

La mattina del Due Novembre, che era festa sul calendario e non si lavorava, dopo una notte di attesa per quei Morti che una volta l'anno tornavano sulla terra a riempirci di doni per dimostrarci che non ci avevano dimenticati, era tutto un correre eccitati alla ricerca dei regali, per le stanze, sotto i letti, in ogni nascondiglio della casa. Saltavano fuori bambole, trenini, soldatini, piste per le automobiline e l'immancabile Cannistru con la martorana, la frutta secca e le monetine di cioccolato.

Seguiva la visita al cimitero, anch'esso rituale festoso e non ancora contaminato dalla consapevolezza del lutto e del dolore. Le lacrime dei grandi, spesso versate in solitudine e lontano dalla nostra vista, non ci appartenevano. C’erano i fiori, rigorosamente garofani e crisantemi, c'erano i cipressi all'ingresso, c'erano i grandi viali pieni di gente e noi leggevamo, con curiosità infantile, le incisioni sulle lapidi, inseguendo con lo sguardo gli adulti indaffarati a pulire il marmo delle lapidi, cambiare l'acqua ai fiori, metter via i fiori secchi, cercare un rubinetto, fermarsi addolorati davanti ai morti recenti.

Io leggevo i nomi, guardavo le foto, facevo un rapido calcolo dell'età, immaginavo le vite di ciascuno di loro, conoscevo tutti i defunti della strada dei miei nonni, ne riconoscevo i familiari, era come il quartiere di una città. Del resto, ci si incontrava tutte le domeniche mattina, non solo il due novembre. Questa familiarità col cimitero, queste immagini di giovani caduti nel fiore degli anni, di bambini morti appena nati, di ragazze bellissime che ci sorridevano da dietro una foto ci hanno aiutato a convivere con l'idea della morte, ad esorcizzarne la paura.

Ci soffermavamo poco sulle donne vestite a lutto, sui loro fazzoletti neri in testa, sugli uomini col vestito e la cravatta nera, sui visi rugosi solcati dalle lacrime, era una visione a cui eravamo abituati da bambini: il dolore, quello intenso, devastante, ci lambiva, restava ai margini, ci poteva sfiorare ma non sopraffare. Poi, passavamo oltre. Il pensiero era al pranzo in famiglia, tutti a casa della nonna, a giocare con i cuginetti, a ringraziare quel nonno in foto col lumino acceso e i fiori freschi davanti, così buono e amorevole da tornare una volta l'anno per essere festeggiato, cacciando via la tristezza della nonna e degli adulti per la sua mancanza.

Adesso sei cresciuto. Non si chiama più “festa dei morti” ma “celebrazione dei defunti”. Già così è un pugno, una morsa nello stomaco. Nel frattempo il cimitero non è più il luogo abitato da sconosciuti o da un nonno di cui hai poca memoria. Entri e ti investe il senso delle cose perdute, degli affetti più cari, degli amici andati via troppo presto. E' il contenitore dei vuoti, dei rimpianti, della nostalgia, di ciò che non è più. Vaghi per quei viali con i tuoi fiori in mano, i tuoi ricordi, i tuoi pezzetti di vita, le tue voragini.

Ogni lapide un fiore, una preghiera, il ricordo di un momento, del tempo insieme, di giorni che non tornano più. Torni a casa, con la tua mestizia, il viso umido di lacrime asciugate furtivamente, e qui non trovi i dolci, non trovi i regali, non trovi il Cannistru, e nemmeno il pranzo con i parenti. Rimani la solitudine, e quella malinconia muta in fondo al cuore.   Catia Catania

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