Il fare pittorico di Salvino Catania "divenire-linea-di-fuga"

"Quando dipingeva bruciava con le sue figurazioni e i colori pastosi dava corpo e immagine ai suoi fantasmi artistici"

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
02 Aprile 2024 17:45
Il fare pittorico di Salvino Catania

Salvino Catania, pittore mazarese, è stato una figura eccentrica. Come scrive Giacomo Cuttone, curatore di una mostra post-morte (a lui dedicata), fu un bandito-auto-bandito: un divenire-linea-di-fuga; una vita messa ai margini della città in cui viveva dando scandalo per i suoi comportamenti eterodossi di allontanamento dalla prigionia dei muri cittadini. Eccentrico in vita quanto in morte.

Quando dipingeva bruciava con le sue figurazioni e i colori pastosi (o di altra variazione materiale e consistenza di volumi o superficie), con cui dava corpo e immagine ai suoi fantasmi artistici, diveniva spettro cromatico (indiscernibile). Formale o informale fosse l’opera in corso, lui cercava di ritagliare un ‘aspetto’ dall’indefinita/indetermina visione materica in cui era immerso fino a consumarvisi come un fiammifero acceso. Morì, infatti, bruciato con tutto quando lo circondava (dentro casa sua), mentre dipingeva a lume di candela e dopo essere scappato dall’ospedale che lo aveva preso in cura.

Non era la prima volta… non poteva stare lontano dal suo cavalletto (o altri supporti) e dai tanti lavori già terminati (o da iniziare). Una volta, da lui invitato, vidi coprirne il pavimento del salone di casa sua (un vecchio stabile nel centro cittadino pericolante, fatiscente). Un ampio spazio, precario e denudato, al centro del quale stava però un lungo tavolo stracolmo delle sue opere. Mi invitò a prendere uno/due dipinti o disegni. Non volevo. Insistette. Presi un disegno che raffigurava il guscio di una “chiocciola marina”.

Non molto lontano da quell’incontro, un altro incrocio (ero in compagnia del pittore Giacomo Cuttone). Si presentò la possibilità di esporre i suoi quadri nel Comune di Petrosino. Era il periodo del secolo scorso di un periodico incontro nazionale internazionale di poesia e arte indetto e spesato dal giovane Comune di Petrosino (l’idea della manifestazione – che aveva preso vita e vista non locale – fu iniziativa comune di chi scrive, di Cuttone ed altri amici del luogo). Con un po’ di riluttanza, Salvino Catania accettò; e quella fu l’unica occasione in cui mi chiese di mettere su carta il mio pensiero circa il suo modo di produzione artistica (allora avevo la macchinetta da scrivere; l’era dei pc non aveva invaso e sostituito né le penne da scrivere né la “lettera-22-olivetti”).

Ma non venne più a Petrosino. Si chiuse nel bosco dell’estraniamento e dell’isolamento (ma era soprattutto, credo, un non voler perdere la “distanza” dalle confusioni…; da parte mia non trovai più quelle poche pagine… forse sono bruciate insieme a lui, ai suoi desideri, ai modelli che hanno guidato il suo fare artistico e al tutto della sua casa, inghiottita dal rogo). Oggi metto giù queste semplici battute (forse inadeguate) per dire sull’identità di Salvino pittore, il pittore che, secondo me, voleva essere il divenire-cromatismo-materico (formale o informale fosse la visione-non-visione dell’essere-altro come un concatenamento rizomatico: la com-posizione che aveva in testa e poi concretizzatasi nella varietà e tipologia artistica praticata…).

Il suo divenire pittura-assoluta – crediamo – o di un poiein/produzione o costruzione come riflessione e autoriflessione semiotica e d’arte, come scriveva Gilles Deleuze, era il divenire-anima-le (animale macellato, testa animalizzata-trasfigurata, bocca-che-diventa-grido-facies-strabuzzata…, spessore che scompare e si rimodella …) di Francis Bacon o il divenire-croce di Antoni Tàpies (l’artista che finì con l’identificare se stesso con la lettera “T”); il grafema insieme del sua filiazione e simbolo che, similare, si individua anche come un emblema della croce (il Cristo messo in croce, e prima ‘bandito’ dal consorzio della sua comunità d’origine; il gruppale devoto solo alla “legge” e alle “regole” già scritte e immobili, che giudicano, condannano e confinano-bandiscono gli irregolari e impertinenti).

Le croci di Salvino Catania o certi volti-testa o silhouette di donna delle sue tele, mi invitano a pensare che accanto a Velázquez, Modigliani o altri, il nostro pittore, innovativamente, attingesse anche ai paradigmi creativi di Tàpies e Bacon (Bacon, richiamato anche dal curatore – Giacomo Cuttone – della mostra presso il complesso monumentale “Filippo Corridoni”, Mazara del Vallo, 29 febbraio/30 marzo). Le croci di Salvino sono però come la morte degli inverni che, nel ciclo della vita, aprono la strada alla primavera e alle biforcazioni del futuro (l’eternità del tempo delle cose che esistono e che non esistono).

Il futuro che, come l’arte pittorica di Salvino Catania, sa che morire è morirsi e viversi è vivere come una “linea di fuga” desoggettivata (un impersonale deterriolizzarsi per riterritorializzarsi come “bandito”: il suo divenire-pittore-pittura ai bordi della Città interni-esterni). Il vivere come un-entrare-uscire circolare immanente da una porta a un’altra secondo la logica della sensazione non disgiunta dalla logica della geometria infinita (senza limiti) dei concatenamenti con le forze di fuga e cattura che lo attraversavano e che rendeva visibili.

Chi, tra simmetrie e asimmetrie, volesse provare l’esperienzialità “spigolosa” e bifida del virtuale reale delle opere del nostro pittore, varchi la soglia de “La porta di Salvino” o il suo divenire-altro rimanendo un sé molteplice in un oggi che è la voce della primavera: la vita dei corpi, che sfatti per decesso, tuttavia, generano altra vita come trasformazione in-volutiva (ovvero dentro le cose…)!

Antonino Contiliano

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