Il lavoro e la fatica, la correlazione tra il tipo di lavoro e la fatica che ne comporta. Ma c’è anche chi fa tanti soldi senza lavorare. Alcuni lo dicono, altri lo sognano, altri lo fanno davvero. Ma cosa si intende per “lavorare”? Facciamo un ragionamento. Il lavoro non ha per forza a che fare con lo “spaccarsi la schiena”. Provate a guardare i muratori o chi fa i lavori stradali; fanno tantissima fatica e guadagnano poco rispetto a quello che fanno. Se invece il mercato ricompensa a suon di soldi per ciò che si fa, anche se non ci si sforza troppo, questo va benissimo. Il libero mercato è questo. A livello di efficienza, è naturale volere il massimo risultato con il minimo sforzo.
Bisogna cercare di fare meno fatica possibile. La fatica non è mai ricompensata. Mai. Nessuno ti paga perché fai fatica. Le persone che guadagnano meno sono le persone che si spaccano la schiena. Non c’è nessuno che faccia soldi spaccandosi la schiena e diventa miliardario; è praticamente impossibile. Le persone che guadagnano poco spaccandosi la schiena non sono ricche: sei ricco quando produci valore per tante persone e servi tante persone in una cosa che è difficile da fare, quindi per definizione ci sono poche persone che la fanno e la vendono a tanti.
Le persone credono di essere pagate, o che dovrebbero esserlo, per quanto fanno fatica. Nessuno è pagato perché va al lavoro. Uno dei problemi dell’avere un salario è questo; che le persone si convincono che vengono pagate per la presenza, la presenza non è pagata. L’idea del salario è che se tu stai 12 ore in ufficio in teoria stai facendo azioni che producono più profitto aziendale e quindi l’azienda è contenta di pagarti perché tu fai aumentare i loro soldi. Ma non perché fai fatica.
Vieni pagato quando produci e porti valore al mercato.
La fatica non è collegata al guadagno. La credenza è che chi lavora di più fa più fatica e quindi dovrebbe guadagnare di più perché all’aumentare della fatica aumenta il lavoro e di conseguenza il guadagno. È falso. Chi fatica di più non guadagna di più. Se fatica e non soddisfa il mercato, il mercato non lo paga. “L’etimologia della parola “lavoro” – scrive nella pagina letteraria “Il Corriere della sera”- ci riporta al latino labor che significa fatica. Ma se allunghiamo la ricerca nel passato ci imbattiamo nella radice sanscrita labhche, in senso letterale, significa afferrare, mentre, in senso figurato, vuol dire orientare la volontà, il desiderio, l’intento, oppure intraprendere, ottenere”.
La più efficace sintesi letteraria di questa somma di concetti la dobbiamo a Cesare Pavese e alla sua raccolta di poesie “Lavorare stanca” pubblicata nel 1936. Questi sono i primi versi della poesia che dà il titolo alla raccolta: “Traversare una strada per scappare di casa lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo e non scappa di casa”.
C’è un elemento che ha fatto salire di grado il lavoro, dalla semplice descrizione di una fatica, fisica o psicologica, ad una dimensione più alta legata all’obiettivo che si persegue, è la dignità. Quindi lavoro non come semplice merce, o scambio di servizi, ma come realizzazione individuale e soddisfacimento dei bisogni.Il lavoro è presente nel primo articolo della Costituzione e viene indicato come fondamento della nostra repubblica democratica. Un testo chiaro e conciso, in cui si trovò il compromesso tra le tre culture politiche che avevano combattuto il fascismo: la marxista, la cattolica e la liberale. E che vuol dire molto più di quanto afferma positivamente. Per esempio, che la Repubblica italiana non è fondata sul privilegio o su un presunto diritto nobiliare ma sul lavoro e la fatica.
C’è la riproduzione di un famoso quadro dipinto da Telemaco Signorini nel 1864 e intitolato «L’alzaia».Vi si vedono un gruppo di uomini, dai volti indistinti, colti mentre trascinano una imbarcazione dalla riva del fiume, come facevano i nostri pescatori: sono piegati in due nel momento del massimo sforzo e sembra di sentire il peso della loro fatica. Sullo sfondo a fare da contraltare alla loro fatica un aristocratico e una bambina in abiti eleganti che volgono le spalle alla scena. «L’alzaia», la tela di Signorini che in un’asta del 2003 è stata pagata tre milioni e mezzo di euro, la più alta quotazione raggiunta dal pittore fiorentino, è considerato il capolavoro capostipite della «pittura sociale» italiana.
Il primo maggio si celebra in gran parte dei paesi del mondo, la festa del lavoro. La ricorrenza viene festeggiata con cortei che ricordano le battaglie operaie, fin da metà Ottocento, per la riduzione della giornata lavorativa a otto ore. Tra gli episodi più cruenti di questa battaglia, si ricorda la rivolta anarchica dei lavoratori di Chicago, repressa nel sangue nel maggio 1896. In Italia il Primo maggio si festeggia dal 1890 e dal 1980 i sindacati confederali organizzano un grande concerto musicale in piazza San Giovanni a Roma.
Tutto regolare, tutto ok. Ma ci sono in Italia e, in Sicilia, in particolare, migliaia di lavoratori in nero. Per semplificare il concetto raccontiamo cosa dice un anonimo lavoratore in nero di Mazara. È il duro sfogo di Ciccio (nome di fantasia) 60 anni, muratore da quando era un ragazzo. Ha gli occhi stanchi e il fisico affaticato. Siamo seduti in un bar del Lungomare. "Sono un muratore che, purtroppo non per scelta, sono stato sempre costretto a lavorare a nero – racconta Ciccio – e come tale, nella mia situazione, non ho diritto a un bonus spesa, né buoni pasto, né bonus indennità, neanche un euro da parte dello Stato o dalla Regione nei miei confronti, forse un euro per comprarmi il filo per il cappio.
Eppure, dopo 40 anni di lavoro – continua Ciccio – io non ho mai avuto ferie, né malattia, non ho l'infortunio, non ho la pensione, non ho nulla. Quando sento dire che lavoriamo a nero e freghiamo lo Stato non pagando le tasse – continua Ciccio – sono solo stupidaggini. È un'offesa a quelle persone che dalla mattina alla sera si fanno un culo per nove ore lavorative e poi dover sentire dire: «Voi non pagate le tasse» Io vorrei tanto poter lavorare messo in regola – continua – ma se dicessi al mio datore di lavoro: «Io non ci vengo domani a lavorare se tu non mi metti in regola» lui in un batter d'occhio ti risponde: “Resta a casa, domani me ne prendo un altro Questa purtroppo è la triste realtà". Poi Ciccio si appella allo Stato.
"Abbassate il costo del lavoro – dice con dura voce. Di solito si fanno 8, 9 giorni di lavoro al mese, quando mi va bene e gli altri restanti 20 giorni come faccio a vivere? Unica alternativa è andare alla Caritas, nelle mense sociali perché non abbiamo diritto a nulla, nemmeno a morire perché non meritiamo neanche questo perché siamo una categoria che non conta" – conclude. Lui, il 1° Maggio non sa che cosa si festeggia.
Salvatore Giacalone