“I ricordi sono ombre troppo lunghe” ha scritto il poeta Vincenzo Cardarelli in una sua celebre poesia. Ma sono anche le immagini, le sensazioni, le emozioni e le informazioni che conserviamo nella nostra mente. E poi sono ancora tanti i misteri non svelati di quel 23 maggio del 1992 quando alle ore 17,57, “cosa nostra” fece esplodere un tratto dell’autostrada A29, proprio mentre lì transitava il corteo della scorta con a bordo il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di Polizia, a bordo di tre Fiat Croma blindate.
Oltre a Giovanni Falcone, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo (anche lei magistrato) e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. In totale, i feriti furono 23. Oggi vogliamo ricordare questa mattanza. Il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, nell’introduzione al libro di Ferruccio Pinotti intitolato “Attacco allo Stato– I misteri delle stragi del ’93 e il Codice Matteo Messina Denaro”, ha scritto: “Rimangono spunti investigativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage”.
La Repubblica ha fatto il punto su alcuni nodi ancora da sciogliere in merito alla strage di Capaci: uno di questi riguarda un dna femminile estratto qualche anno fa da un guanto sequestrato accanto al cratere provocato dall’esplosione. L’indagine sulla donna delle stragi si sta allargando anche alle bombe di Firenze e Milano del 1993. Non solo: gli attentatori di Falcone usavano cellulari clonati e un numero che è risultato “non ancora assegnato”. Durante le prime indagini era emerso che l’utenza “fantasma” era stata attivata in un’agenzia Sip di Roma Nord.
Gli inquirenti hanno iniziato nuovi accertamenti. Si continua a indagare, inoltre, sulla telefonata che Antonino Gioè ha fatto, 2 ore e 41 minuti prima dell’esplosione di Capaci, a un’utenza fissa in un residence in Minnesota. A questo proposito sono stati richiesti nuovi accertamenti all’Fbi. Sono ancora avvolte nel mistero poi le parole di Totò Riina, che, intercettato in carcere nel 2013, disse al suo compagno di ora d’aria: “Abbiamo incominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, aeroporto, cose… Andammo a tentoni… Fammi sapere quando prende l’aereo“.
Il dubbio ancora irrisolto riguarda chi avrebbe fatto sapere agli attentatori quando Giovanni Falcone avrebbe preso l’aereo di Stato per spostarsi da Roma a Palermo. Nessun pentito ha saputo indicare questa figura. Ecco la strage di Capaci. Ma in quell’anno le armi non si fermarono nella cittadina del palermitano. A questa mattanza si può aggiungere anche il fallito attentato contro il commissario Rino Germanà, una “memoria storica”, una banca dati che cammina. Si salva per la sua prontezza; è sul lungomare di Tonnarella di Mazara del Vallo, quando cercano di ucciderlo; le armi si inceppano, un attimo di esitazione dei killer, lui rapido si getta in acqua, così la scampa.
Facciamo i conti: accade un delitto ogni due mesi, come una cambiale che scade: Lima 12 marzo; Falcone 23 maggio; Borsellino 19 luglio; Germanà 14 settembre. Falcone aveva molti nemici, la “cosa nostra” gliela giura. È “normale”, nell’ordine delle cose. Cosa dovevano mai cercare di fare quei mafiosi? Che la “cosa nostra”, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e gli altri boss mafiosi volessero Falcone morto, ripeto, è nell’ordine delle cose. Non sarebbero stati i mafiosi.
Ma sono soprattutto le coltellate che Falcone ha avuto alla schiena, che si dovrebbero ricordare. Borsellino una volta ha parlato di un “giuda”: non uno solo; tanti, i “giuda”. Le cronache raccontano che sono tanti i documenti spariti, intere biblioteche. Scomparsi gli appunti scritti dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa sul vorticoso giro di appalti palermitani e siciliani. L’inseparabile borsa da cui il generale mai si separa, e che si vede anche in molti filmati di repertorio, “sparisce” per lungo tempo.
La ritrovano in uno scantinato del tribunale di Palermo. Vuota. Il generale si porta a spasso, senza mai abbandonarla, una borsa vuota? Scompare il foglio della relazione di servizio redatta dall’agente Calogero Zucchetto, il primo ad arrivare sul luogo dell’omicidio Dalla Chiesa. Anche Zucchetto è ucciso dalla mafia. Scompare l’agenda del capo della sezione investigativa della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà, ucciso dalla mafia. Scompare l’agenda che Cassarà sequestra a casa di Ignazio Salvo. Scomparsi gli appunti del poliziotto Nino Agostino, ucciso dalla mafia assieme alla moglie.
Scompare quella che potrebbe essere l’agenda rossa di Borsellino subito dopo l’esplosione in via D’Amelio. E vi sono altri misteri, altre scomparse. 1.031 nomi, 1.031 persone che non esistono più, 1.031 vittime innocenti delle mafie. È questo il numero delle persone innocenti uccise dalla criminalità organizzata, e a queste bisogna aggiungere le faide interne, le guerre di mafia, le esecuzioni sommarie. Un massacro di 33 anni fa che non si può cancellare.
Salvatore Giacalone