Ultime della sera: “Vecchiezza e giovinezza ai tempi di mia nonna“

Non si impara solo dai libri o dalle parole, si impara anche dai gesti delle persone che incontriamo.

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
09 Luglio 2021 19:13
Ultime della sera: “Vecchiezza e giovinezza ai tempi di mia nonna“

Dalla nonna Maria ho imparato troppe cose che ci vorrebbero mille notti solo per i suoi insegnamenti. Ve ne racconto solo due, magari non le più importanti, ma certamente le più suggestive, almeno per me.

Per prima cosa la nonna Maria mi insegnò come si riconosce la vecchiezza. Eravamo vicine vicine, nell’antica cucina della casa di campagna, dove ci eravamo rifugiati dopo il terremoto. Lì lei puliva le scarpe di tutta la famiglia, con la santa pazienza degli antichi, con gesti accurati, come se dalle sue mani dipendesse la bontà dei nostri sentieri e delle vie che avremmo percorso. E un giorno, mentre era intenta a lucidare le scarpe più belle del suo figlio più bello, mi disse sussurrando: “Figlia mia, ora t’insegno cos’è la vecchiezza” e stese la rugosa mano sinistra e con due dita della mano destra prese un po’ della sua pelle e la strinse delicatamente, creando una specie di piccolo rilievo che restò così, come plastilina, e ci mise un’eternità a tornare a distendersi.

“Hai visto? - mi chiese – Questa è la vecchiezza. Ricordatelo.”

Mentre mi insegnava la vecchiezza lo faceva con amore, come tutte le cose che faceva, senza paura, senza rabbia, solo con un velo di tristezza che l’accompagnava sempre e dovunque, come il nero dei suoi abiti. Perché la nonna Maria sapeva cos’era il dolore ma lo affrontava senza scappare.

“Ecco - concluse – quando penserai di essere diventata vecchia fai questa prova, magari le tue mani saranno più giovani del tuo cuore e potrai tornare a respirare.”

Ed io me lo sono ricordato e, sapete? Non ho ancora fatto la prova per vedere se è arrivata Madama Vecchiezza, perché il mio cuore si sente ancora giovane anche se le mie mani la pensano diversamente. Ma fin quando non farò la prova, sulla mia pelle, terremo lontana la brutta strega che porta via le amate nonne.

La nonna Maria mi svelò un altro grandissimo segreto, un segreto dedicato alle femmine. Lei che era così pudica e riservata, timorata di Dio e di tutti i Santi, un giorno mi disse, sempre sottovoce, come se stesse per confidarmi un delitto:

“Figlia mia, lo sai quali sono le parti del corpo che le donne dobbiamo curare di più?” - in un attimo avevo la testa piena di pezzi anatomici decisamente osè.

“I gomiti e le ginocchia.” Me lo disse così, come una verità, senza una spiegazione, prendere o lasciare. Io ci misi anni per capire e nel frattempo mi presi cura dei miei gomiti e delle mie ginocchia, a prescindere. Se lo diceva la nonna Maria era vero, punto e basta. Ogni tanto si apriva uno spiraglio nel buio dell’ignoranza dell’universo femminile antico, riservato, segreto. Un pezzo di racconto, un film in bianco e nero, una cartolina sbiadita degli anni venti… Mettevo a posto i pezzi del segreto svelatomi dalla nonna Maria, mentre curavo con pietra pomice e creme nutrienti gomiti e ginocchia, sperando che prima o poi avrei avuto davanti agli occhi una risposta plausibile.

La sensualità delle ginocchia fu presto svelata, quando una delle solite domeniche dedicate al pranzo della tribù, alla richiesta unanime di farci raccontare dai nostri genitori come si fossero fidanzati, mio padre attaccò, per l’ennesima volta, la scena che si era svolta un secolo prima nella casa della sorella grande di sua madre, alla presenza di zii, cugini, madrine e patriarchi.

“Io ero seduto ad un pizzo, guardato a vista dalla zia Giuseppina, e vostra madre era seduta all’altro pizzo, marcata stretta dalla cugina Pietrina.”

“E poi? E poi?”

“E poi niente, ci guardavamo e sorridevamo e io parlavo e parlavo.”

“E poi? E poi?”

“E poi niente, io continuano a fare tanti complimenti a tutte le femmine della parentela e tua madre continuava a guardarmi con quei suoi occhi stregati e ci siamo fidanzati.”

Ma questa volta non ci accontentammo e continuammo a chiedere “E poi? E POI?” come per far continuare la favola più lunga della nostra vita.

Al che mio padre abbassò lo sguardo e la voce e capimmo che stava per fare la rivelazione del secolo.

“E poi vostra madre accavallò le gambe e io potei sbirciarle le caviglie candide e le morbide ginocchia e così mi alzai, la feci alzare e la baciai davanti a tutti!”

Ecco fatto, svelato l’arcano delle morbide ginocchia che a quei tempi erano sempre, e dico sempre, coperte da gonne lunghe e spesse, d’estate come d’inverno.

Ma i gomiti? E venne anche quel giorno e fu come un’illuminazione cosmica, un’emozione planetaria. Successe quando per la prima volta un uomo mi prese a danzare, toccandomi il gomito e accompagnandomi al centro della stanza. Avevo dodici anni e un cugino di mio cugino, in una festa a casa di altri cugini, mi prese proprio dal gomito e in quel momento capii che quando le nostre nonne e le nostre madri misero per la prima volta abiti con le maniche “a tre quarti” scoprirono che prendersi cura dei loro gomiti non era stato vano. Ai miei tempi si usavano da un pezzo abiti a mezze maniche e persino senza maniche e d’estate le nostre braccia erano perennemente nude. Ma cent’anni prima era tutta un’altra storia e persino un morbido gomito, come il morbido ginocchio, poteva raccontare al tatto di che pasta eravamo fatte.

di Antonella MARASCIA

La rubrica Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

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