Ultime della sera: “La follia, una condizione umana”

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
15 Ottobre 2020 18:27
Ultime della sera: “La follia, una condizione umana”

Sabato 10 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Ogni anno viene celebrata questa giornata perché c’è ancora bisogno di andare oltre lo stigma che accompagna il disturbo mentale, come riferisce anche la Sottosegretaria di Stato alla Salute Sandra Zampa. “Il nostro intento è quello di lottare contro i pregiudizi verso le persone affette da disturbi mentali, consapevoli che in questo momento molti hanno pagato un prezzo altissimo dovuto all’emergenza Covid-19: donne, uomini e adolescenti già esclusi o emarginati dalla vita sociale e che hanno visto questo disagio crescere a dismisura” – aggiunge la Sottosegretaria, che conclude: “Bisogna abbattere il muro che confina in uno spazio muto il disagio, perché non c’è salute senza salute mentale”.

Tuttavia quello che spesso non viene compreso e ciò che lo stesso Franco Basaglia affermava è che “la follia è una condizione umana” quindi esiste perché esistono gli esseri umani. Nelle sue Conferenze Brasiliane del 1979 dice: “In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla.

Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere che è quella di far diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato.” Sicuramente, come dice Umberto Galimberti nel suo saggio I miti del nostro tempo, “le malattie dell’anima (delle quali appunto si dovrebbe occupare la psichiatria) sono legate al sistema di credenze che al momento dominano”. Un esempio è quello dell’isteria.

Questa parola, che deriva dal greco hysteria e significa utero, per un certo periodo di tempo ha indicato in psichiatria una serie di comportamenti problematici caratteristici dell’universo femminile. E così tra il XIX e i primi anni del XX secolo molte donne sono finite in manicomio perché ritenute “ribelli” in quanto non aderivano ai modelli femminili imposti di mogli e madri o non erano figlie devote o anche perché tentavano la fuga da violenze e soprusi, o non erano semplicemente in grado di prendersi cura della casa.

Alcune donne venivano considerate “scandalose” solo perché avevano un approccio più libero alla sessualità. Spesso nelle cartelle cliniche erano descritte come “donne inquiete e irascibili, ingannatrici e manipolatrici, troppo loquaci e maldicenti, ma soprattutto come trasgressive e sessualmente disinibite”. La stessa Alda Merini in “Diario di una diversa” ce lo testimonia. “La Z era una bonacciona. L’avevano messa lì dentro perché era stata ragazza madre e volevano disfarsene, ma non aveva nulla di folle, era quieta e, a volte, persino serena.

Solo quando pensava al suo piccolo si metteva a piangere e piangeva in silenzio, certa che nessuno l’avrebbe compresa. Ma io la comprendevo bene. Sapevo che l’essere madre in un posto come quello diventa una cosa atroce. Perciò cercavo di distrarla”. Una volta internate, però, molte donne non ne uscivamo più come viene raccontato nel libro “Gentilissimo signor Dottore, questa è la mia vita”, storia di Adalgisa Conti, una donna che entra in manicomio all’età di 26 anni per volontà del marito e ne esce all’età di 92, nel 1978 cioè con la chiusura dei manicomi voluta dalla legge Basaglia.

In questi 66 anni Adalgisa scrive lettere al direttore, alla madre, al suocero per far capire che è guarita, parla della sua vita, cerca di dare un senso alle sue “colpe” tra le quali quella di non provare piacere insieme al marito o quella  di non avere avuto dei figli. Dunque se lo psichiatra è il medico dell’anima perché, si chiede Galimberti, deve conoscere i sintomi della malattia “che sono poi quelle espressioni dissonanti rispetto al modo comune di essere al mondo”? Oggi, i manicomi sono stati chiusi.

Ecco la descrizione che ne fa Antonin Artaud, drammaturgo e regista francese che passò in manicomio circa 9 anni della sua vita. “Non c’è niente come un manicomio per covare dolcemente la morte. E tenere nell’incubatrice dei morti. La medicina moderna passa i suoi morti per l’elettroshock o per l’insulinoterapia per bene vuotare ogni giorno gli uomini dal loro io”. Alcune verità non potevano essere gridate dal cuore ma avevano bisogno di un luogo dove essere rinchiuse. Oggi quelle stesse verità sono messe a tacere dagli psicofarmaci.

La follia ci costringe a guardarci dentro, a fare i conti con la nostra imperfezione, col nostro sadismo, col nostro cinismo, con la crudeltà dell’anima. Oggi la pratica farmacologica sopprime l’ascolto delle emozioni, la follia sta diventando un evento medico e non un evento umano. Le “malattie dell’anima” però, sono condizioni comuni dell’esistenza che poeti e artisti hanno saputo descrivere ed esplorare molto meglio degli psichiatri. Quando la follia prende forma nella creatività si trasforma nella malinconia di Emily Dickinson, nella musica di Franz Schubert, nei colori di Van Gogh.

Con la chiusura dei manicomi lo stesso Basaglia auspicava un cambiamento della società. Il folle che non è più chiuso tra quattro mura costringe tutti a fare i conti con il dolore, con la sofferenza. Un po’ come avvenne col pittore Ligabue, dove tutta la comunità di Gualtieri lo sostenne come persona e come artista. Attraverso i servizi di salute mentale diffusi sul territorio, che hanno sostituito il manicomio, è dunque l’intera società che deve cambiare visione e farsi carico di accettare il disagio come una condizione umana, accettare i diversi, i folli, i più deboli e fragili come la parte più cruda e vera di se stessa.

Quella senza barriere. “È inutile accantonare certe figure che io ho accolto durante la mia asociale cintata da quelle mura che tutti hanno creduto sterili e senza canto. Ci sono anni, in cui la poesia tace, ed come se la vita si tirasse indietro e dai polpastrelli scompare l’attitudine al tatto, alla materia, al brivido. Sono ani incolori in cui uno si siede a numerare la piastrelle del suo pavimento che gli sembrano rombi infelici rispetto alla sua grandezza. Ti parlo di pancacce di legno e intendo dire che queste panche hanno deriso malanno anche rivelato i grandi misteri della vita.

Queste panche erano alberi, alberi pieni di suoni e di colori, e bastava un poco di fantasia per dimorare in quella grande stanchezza che genera le albe migliori e i figli…sì, i figli non li avresti dimenticati mentre sorgeva la notte, mentre tante anime erano inoperose. Alle volte ho riso del mio disfacimento e di quello degli altri, delle calunnie e delle magie occulte. E poi come erano ilari certi confini tra il sogno e la realtà. Il delirio, quel cornicione asciutto su cui ho camminato per anni come una sonnambula con le labbra in avanti, ansiosa di un bacio d’amore” (Alda Merini, Queste panche erano alberi)   Saveria Albanese

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