Ultime della sera: “Il Carnevale nella memoria degli iblei”

Dalla sdirruminica alla sdirrisira i giorni del carnevale, il cibo, i dolci, i detti, gli indovinelli

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
01 Marzo 2022 18:30
Ultime della sera: “Il Carnevale nella memoria degli iblei”

“La sdirruminica fatti amica la monica”. Così saggiamente consigliava Serafino Amabile Guastella nel suo studio su L’Antico carnevale della Contea di Modica. Lo studioso raccoglie ragioni ed usi di una festa che oggi non ha più niente dello spirito dell’antico. Forse, però, affermare che non resiste più niente non rende giustizia della sopravvivenza di certi usi che sono ancora vivi in alcune aree dell’altopiano ibleo. Durante gli incontri avvenuti nell’ambito di una più vasta ricerca sul territorio mi è capitato di chiedere agli intervistati notizie che riguardavano le usanze del Carnevale con particolare riguardo alla preparazione dei piatti tipici.

A Frigintini incontro tre capitoli di questa ricerca. Il signor Alecci. Ci apre la porta di un moderno appartamento. Si appoggia al bastone. All’interno il tepore è discreto. La moglie si scalda accanto ad una stufa a gas: “i termosifoni non funzionano” spiega. La figlia, occhi grandi e pelle bianchissima ci porterà il caffè più tardi. Vengo al dunque: “ma il Carnevale nelle campagne?” “il Carnevale era a festa ra panza! Io ero iarzuni. Questo significa che notte e giorno ero al servizio del massaro, io lavoravo nto Massa Angilu u Puddasciaru.

Ci svegliavano in piena notte anche dopo un giorno di lavoro massacrante e se per caso qualcuno si ribellava veniva cacciato. Però non ci faceva patire la fame. A mezzogiorno minestra, la sera fave. L’indomani la pasta con le fave. Ci chiamavano “scazzamurri”. A Carnevale però ci facevano i maccarrunedda nel sugo di maiale qualche anno c’era pure la carne!”. A proposito incontro la signora Talina, una sorta di microcosmo vivente. Lavora il cinquecento, si prepara la ricotta da sola, impasta il pane per la sua famiglia ed ha una età imprecisata.

Quello che la rende indelebile è la convivenza in sé di passato e presente in una sorta di equilibrio dettato dalla tenace resistenza in lei del passato in forma di ricordo. Piegata sulle sue spalle ci ospita in cucina. Lì il tempo che è stato incontra il presente. In un angolo a quartara per l’acqua memoria di un pozzo ormai dismesso. Una cucina a legna in un angolo porta ad ebollizione l’acqua in una pentola di rame. La televisione ricorda i programmi della serata e un orologio a cucù ci riporta alla nostra intervista.

Sul grande tavolo u “pettini pe maccarrunedda” e poi lunghi bastoni di canna nei quali la signora avvolge la pasta. “I maccarrunedda ce li mangiamo a Carnevale quando vengono i miei figli a mangiare tutti qua. Ma il dolce ra devozione è a ampagnuccata. Ci vogliono 2 uova e poi la farina che si prende. Niente zucchero mi spiega come fare l’impasto. Ecco tornano le parole del Guastella. Anche lui citava tra i dolci che preparavano le monache proprio le “pagnuccate”. Per dirla con lui: “la pagnuccata, scorrezione di pinocchiata, è un dolce a forma di pinocchia, di farina impastata con gialli d’ova, poi fritto nel grasso porcino indi cotto e ingiulebato nel miele”.

La signora Talina ricorda che tra i dolci tipici vi erano anche i mustazzola. Già, ma per quello ci vuole la signora Maria. Il terzo capitolo. La sua casa è circondata da un alto muro a secco. Un viale lastricato di ampie basole introduce ad un baglio di cocci regolari, levigati dal tempo. In quell’ambiente tutto è rimasto come all’inizio del secolo scorso come in una lunga incessata attesa. La cucina sembra quella di un museo e l’odore richiama la memoria di bambina. La signora Maria ci parla tra indovinelli e Nivinagghi mentre impasta farina e miele per i noti biscotti.

Maria si lascia andare nel riferire qualche nivinagghia: erano degli indovinelli a sfondo erotico che però nascondevano sempre un significato segnato dalla grande purezza. Questi particolare indovinelli erano per lo più appannaggio delle donne a cui tale licenza era lecita appunto a Carnevale. “Caminannu caminannu ma vaiu tuccannu! È la sacchetta!”. L’odore delicato del miele ci riporta al Guastella che tra i dolci del carnevale ne cita anche uno particolarissimo. È la testa di turco.

Di questo dolce rimane un ricordo nella vetrina della storica dolceria Bonajuto a Modica. Ma a Scicli lo preparano ancora. Narra la storia che nel 1091 le “saracinesche armate” sbarcarono sulle coste siciliane per tentare di conquistare l’isola. Il conte Ruggero d’Altavilla, comandante delle truppe normanne sopraffatte dai saraceni, decise di affidare la propria sorte al cielo chiedendo un aiuto divino. E l’aiuto arrivò sotto forma di una Madonna guerriera che guidò l’esercito normanno sconfiggendo gli invasori.

Ai turchi non rimase che tornarsene nei loro paesi consumando il “trofeo dei vinti”. Un dolce a foggia di turbante ripieno di crema. La testa di turco, appunto.

di Marcella BURDERI

La rubrica Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

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