Accade spesso che scenari usuali siano così scolpiti nella memoria visiva di chi osserva da rimanerne indifferenti. È così se ad osservare la campagna iblea è uno sguardo distratto dalla consuetudine: non saprà cogliere l’imponenza delle grandi distese. In quegli sterminati luoghi dove i muri a secco si rincorrono tracciando un fitto reticolo che lascia immaginare linee di confine ben determinate, tra grano e vigneti, tra agrumi e serre, si stagliano imponenti cattedrali naturali: i carrubi. Ma chi porta scolpito nella memoria la danza delle colline iblee ben sa ritrovare nel ricordo il colore inconfondibile dell’albero che tra tutti le caratterizza.
“La luna rossa, il vento, il tuo colore di donna del Nord, la distesa di neve.. Il mio cuore è ormai su queste praterie, in queste acque annuvolate dalle nebbie. Ho dimenticato il mare, la grave conchiglia soffiata dai pastori siciliani, le cantilene dei carri lungo le strade dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie, ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru nell’aria dei verdi altipiani per le terre e i fiumi della Lombardia. Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria. Più nessuno mi porterà nel Sud.” Così anche Salvatore Quasimodo, pur lontano ormai dalla Sicilia, ravvisava nel carrubo una immagine in grado di rappresentare un angolo della sua terra madre; in quel Lamento per il Sud ne aveva avvertito il tremore causato dal vento.
Se, ancor di più, ci si vuole affidare alle descrizioni dotte della nostra terra Iblea ci si potrebbe abbandonare tra le righe di Bufalino che insieme a Nunzio Zago in Cento Sicilie descrive i mille volti dell’isola:
“Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto d’isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui tutto è dispari, mischiato, cangiante, come nel più ibrido dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia ‘babba’, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia ‘sperta’, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato deliri”.
La Sicilia del Carrubo dunque, terra di dolci declivi, panorama in cui la terra del grano coincide con la Sicilia del miele, dell’olio, e di mille altri preziosi frutti. Ma perché Bufalino si sofferma proprio sul carrubo individuando nella sua meravigliosa forza la capacità di rappresentare una intera area dell’isola? Forse perché il carrubo, in quanto albero, racchiude in se il concetto di vita. L’albero in generale, tra le piante, ha una ricchissima simbologia: è difficile immaginare un’altra presenza della natura così carica di significati.
A cominciare dal significato primo che gli diamo quello cioè di essere “casa” a tal punto che per risalire alla composizione di una famiglia ne ricostruiamo l’albero genealogico. Volendo individuare le ragioni per cui la pianta è così ricca di significati potremmo per esempio dire che la sua imponenza rappresenta la simbologia stessa della vita. Fortemente legato alla terra anche l’uomo tende verso l’infinito. Immobile e imponente, con la sua longevità l’albero sembra sfidare il tempo, dà l’idea del tempo, della finitezza della natura umana, della caducità della vita dell’uomo.
L’albero in genere rappresenta il carattere ciclico dell’evoluzione cosmica: morte e rigenerazione. In Giappone l’albero nano (bonsai) rappresenta la natura nella sua austerità e nella sua eterna saggezza. Deve esprimere con le sue forme il divino equilibrio della natura. Se i rami superiori sono fortemente spostati indietro il bonsai esprime il dolore degli esseri che non vogliono rassegnarsi. E quante volte abbiamo assistito alla commovente scena in cui un albero diventa “casa”.
Asini, mucche, pecore e spesso anche uomini nelle pause del raccolto trovano ristoro in giornate troppo calde o piovose. L’albero è un ricovero per moltissime specie viventi, condizione essenziale per assicurare la diversità delle specie, unità di base per fare di un territorio arido un luogo con regolatori microclimatici in grado di assicurare rifugio e alimentazione per moltissime specie viventi. Certo non dimentichiamo che il carrubo oltre a vantare il nobile ruolo di casa degli animali, ha anche la triste nomea di appartenere agli alberi incriminati di aver offerto un ramo per il suicidio di Giuda; nel caso specifico si tratta di una tradizione popolare siciliana che riguarda, più precisamente, il carrubo selvatico.
Solo osservando attentamente la varietà di vita che l’albero alberga sul tronco, tra le foglie, tra le radici, si può comprendere appieno la sua importanza ecologica. Le foglie che cadono, per esempio, mantengono inalterato l’humus del terreno, mentre preziose simbiosi avvengono in profondità, nel terreno e in superficie sulla corteccia. Persino alberi cavi, come i carrubi, sono anche più longevi e resistenti alle intemperie rispetto ad altro genere di piante apparentemente più resistenti.
Pochi sanno, infatti che spesso gli alberi cavi sono più forti grazie ad impensabili equilibri con i funghi ad esempio, ma anche con gli uccelli che vi costruiscono il nido all’interno e attraverso le loro feci fertilizzano il terreno intorno. Il dunque rappresenta non solo un intero territorio, ma in quanto albero rappresenta il legame indissolubile tra l’uomo, la sua terra, e la sua tradizione. Nella tradizione ebraica, per esempio, il frutto tipico della festa Tu bi-Shevat è il carrubo detto anche "pane di san Giovanni" forse perché il Battista se ne nutriva nel deserto: la stessa parola greca ha il doppio significato di cavalletta e di carrubo.
Era tradizione che il popolo ebraico piantasse alberi di carrubo e in particolare il ritorno del popolo ebraico in Israele è coinciso con un generale rimboschimento in quella zona di alberi di carrubo. Ancora oggi, in questo giorno, i bambini delle scuole, i nuovi immigrati e gli ospiti stranieri “piantano alberi”. E di carrube parlava Omero, secondo Giuseppe Bianca, noto studioso che visse nei primi dell’800 quando si riferiva al popolo dei Lotofagi. Bianca nel suo studio intitolato Monografia sul carrubo (Firenze 1881) oltre a offrire utili consigli per la cultura della specie, ricorda tutte le identificazioni del lotus, delle quali, a suo parere, la più accettabile sarebbe quella che si riferisce al carrubo. La pianta era dunque nota sia agli antichi greci sia alla tradizione evangelica.
Il carrubo era conosciuto come pianta del deserto, pianta produttrice di frutti dolci, buoni come il pane. Nella tradizione popolare l’albero è chiamato “Pane di San Giovanni”. Anche in inglese mantiene la medesima nominazione ed è chiamato volgarmente “carob tree” o “St. John's bread”. L'appellativo popolare di pane di San Giovanni è dovuto alle antiche scritture, nelle quali viene raccontato di come San Giovanni, avventuratosi nel deserto e trovatosi in mancanza di cibo, riuscì a nutrirsi trovando una pianta di carrubo e mangiandone i frutti.
(In passato si è fatta confusione nella traduzione del termine e si scrisse che il Battista si nutrì di locuste: in effetti si nutrì del frutto del carrubo conosciuto anche con il nome “fagioli delle locuste” per il fatto che quegli animali ne andavano ghiotti). Le locuste non sono i soli animali a cui piacciono le carrube: piacciono anche ai cavalli. Ma a consumar carrube erano, in passato, anche i poveri tanto che, in molti paesi, il frutto fu chiamato anche “pane dei poveri” ; il loro gusto dolciastro e la facile reperibilità (gli alberi di carrubo sono selvatici, producono molti baccelli da mangiare freschi o secchi...
e non necessitano praticamente mai di acqua) hanno contribuito a sfamare molta gente. Arrampicati sui rami dei carrubi, molti bambini italiani hanno spesso cercato di riempirsi la pancia come potevano, specialmente durante la prima e seconda Guerra Mondiale. In Siria e nell’Asia Minore, l’albero era sotto la protezione di San Giorgio ecco perché accade spesso di trovare il Santo protettore della città di Modica e di Ragusa Ibla protetto dall’ombra di un carrubo.
di Marcella Burderi
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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