Riceviamo e pubblichiamo la seguente nota:
Giungendo alla fine di quest’anno, sento il bisogno di fermarmi davanti a Dio per rileggere il tempo che ho vissuto: non come un semplice bilancio personale, ma come un ascolto credente di ciò che il Signore ha operato, chiesto e seminato dentro la mia vita e dentro la storia che mi è stata affidata come presbitero della Chiesa di Mazara.L’anno che si chiude non è stato soltanto una successione di giorni; è stato un tempo abitato, visitato dalla presenza discreta e fedele di Dio, che continua a camminare con il suo popolo anche quando i passi sono incerti.
È stato un tempo segnato da luci e ombre, da momenti di pace e da passaggi faticosi.Non tutto si è svolto secondo i miei desideri. Ci sono state situazioni vissute più per fedeltà che per slancio, scelte compiute senza vedere lontano, tempi in cui il silenzio ha parlato più delle parole. Eppure, alla luce della fede, riconosco che nulla di tutto questo è stato vano o inutile. Anche ciò che non ho scelto, ciò che ho semplicemente attraversato con fatica, è diventato luogo di chiamata e di servizio.Questo tempo mi ha ricordato che la vita non è anzitutto qualcosa da gestire o da controllare, ma da ricevere e custodire.
Il tempo non mi è appartenuto: mi è stato affidato, insieme alle persone incontrate, alle storie ascoltate, alle ferite condivise. Mi ha chiesto di restare, di abitare la realtà così com’era, senza idealizzarla né fuggirla. In questo riconosco una pedagogia di Dio che educa alla maturità della fede e del ministero: una fede che non vive solo di consolazioni, ma cresce nella perseveranza quotidiana del pastore che cammina con il suo gregge.Rileggendo l’anno che si chiude, comprendo che ciò che conta non è soltanto ciò che sono riuscito a fare, ma il modo in cui ho scelto di stare nel tempo che mi è stato donato.
Da qui nasce un rendimento di grazie: per il tempo ricevuto come dono e non come dovuto; per i giorni in cui, anche senza comprendere tutto, ho potuto continuare a camminare insieme alla mia comunità ospedaliera e parrocchiale; per la grazia di imparare che il tempo si accoglie e si restituisce come servizio.È stato un anno segnato dalla concretezza della vita: dal lavoro che pesa o che manca, dall’incertezza che preoccupa, dalle relazioni che talvolta si sfilacciano, dalla malattia che segna la vita di tante persone, dalla paura di non farcela.
Un anno in cui ho sperimentato, anche nel mio ministero, che vivere significa spesso portare pesi non scelti.In questo tempo penso in modo particolare a chi ha conosciuto la fragilità del corpo e degli affetti: ai malati, a chi ha vissuto lunghi ricoveri, terapie faticose, attese cariche di timore. Penso anche a chi, accanto a loro, ha vegliato e si è preso cura: medici, infermieri, operatori sanitari spesso stanchi, talvolta soli, ma fedeli a un servizio che è molto più di un lavoro. In loro riconosco un segno concreto di umanità che resiste.Dentro queste fatiche ho imparato che è possibile continuare a fidarsi di Dio: non come rifugio astratto, ma come presenza che sostiene il passo quotidiano.
Come presbitero, ho visto che la speranza spesso non nasce da grandi parole, ma da una visita, da un ascolto, da una preghiera condivisa. La speranza è una scelta che va rinnovata ogni giorno: fragile, povera, ma ostinata; capace di attraversare il dolore senza lasciarsene schiacciare.Il Giubileo della Speranza si è chiuso in tutte le diocesi del mondo, ma non nella vita reale. Ora chiede di diventare stile quotidiano del ministero e della vita cristiana. La speranza cristiana non è evasione dalla storia, ma capacità di leggerla in profondità.
È una speranza pasquale: passa attraverso la croce, non la evita.Non posso chiudere l’anno senza guardare le ferite del nostro tempo: la guerra che continua a seminare morte, le persone costrette a fuggire lasciando tutto, la povertà che cresce, le morti giovani che ci lasciano senza parole, la violenza che attraversa le nostre città e talvolta anche le nostre case, le famiglie provate da fatiche non sostenute. Tutto questo entra nella vita delle nostre parrocchie, nei colloqui, nelle confessioni, nelle lacrime trattenute.Uno sguardo profetico non è quello che prevede il futuro, ma quello che rifiuta l’indifferenza.
È lo sguardo della sentinella che veglia nella notte senza smettere di attendere l’alba. Come presbitero, sento che mi è chiesto di abitare queste ferite con una presenza che ascolta, accompagna, sostiene e, quando necessario, denuncia ciò che disumanizza, senza perdere la mitezza del Vangelo.Alla soglia del nuovo anno, la domanda non è solo che cosa spero, ma come scelgo di stare dentro la realtà. Con quale cuore entro nel tempo che mi è dato? Da dove traggo la forza per non chiudermi, per non rassegnarmi?La Parola di Dio illumina queste domande: «Ti basta la mia grazia»; «Quando sono debole, è allora che sono forte».In questo tempo risuona con forza l’invito alla pace che Papa Leone XIV continua a rilanciare con chiarezza e fermezza.
Una pace che non è solo assenza di guerra, ma conversione del cuore. Una pace che nasce da cuori disarmati, capaci di rinunciare alla violenza delle parole e dei giudizi. La pace è un lavoro quotidiano, fatto di relazioni curate, di giustizia cercata anche quando costa. Comincia da me: da come ascolto, da come parlo, da come reagisco, da come scelgo di perdonare.Accanto alle ferite, riconosco anche tanti segni di bene che non fanno rumore: persone che non mollano, relazioni che resistono, gesti di solidarietà silenziosa.
Sono questi segni a tenere aperta la storia e a ricordarmi che il male non ha l’ultima parola.Il nuovo anno non mi chiede perfezione né risposte immediate. Mi chiede presenza, fedeltà, coraggio. Mi chiede di abitare il tempo senza fuggirlo e di trasformare la speranza in scelte concrete.Vorrei entrarvi così: fragile ma disponibile, stanco ma perseverante, consapevole che anche il bene che non fa rumore può cambiare la storia. A partire da me.Questa riflessione personale vorrei che diventasse una domanda condivisa: Come stiamo dentro il tempo che ci è dato? Con quale speranza attraversiamo le nostre fatiche quotidiane? Quali scelte di pace, di cura, di responsabilità possiamo assumere, ciascuno nel proprio spazio di vita?Chi vuole può scriverlo nei commenti, grazie.Affido il nuovo anno a Maria, donna che ha vissuto la vita così com’era, senza scorciatoie, custodendo nel cuore anche ciò che non comprendeva.
In lei imparo che la fede non elimina le domande, ma insegna a portarle senza perdere la direzione.Maria, Madre che cammini con noi,affido a te il tempo che si apre davanti a me.Custodisci ciò che è fragile,guarisci ciò che è ferito,sostieni chi è stancoe chi porta il peso della malattia.Veglia su chi soffre nel corpo e nello spirito,su chi cura, assiste, accompagna,spesso nel silenzio.Insegnami a fidarmi quando non capisco,a restare quando vorrei fuggire,a sperare anche quando il cammino è oscuro.Rendimi strumento di pace,capace di parole giuste, di gesti semplici,di scelte vere.Accompagnami nel nuovo anno,perché il tempo che mi è dato diventi dono,per me e per gli altri.Amen.(Don Antonino Favata)