Le nuove schiavitù: sfruttati, precari e senza lavoro. Ma a Mazara qualcuno dice basta

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
03 Settembre 2013 07:30
Le nuove schiavitù: sfruttati, precari e senza lavoro. Ma a Mazara qualcuno dice basta

Li chiamano precari, dal futuro incerto per definizione, senza un posto di lavoro fisso, bensì senza nessuna forma di continuità, se non quella di rimanere sospesi in un "limbo del lavoro" fra l'immagine di un

passato mitico, fatto di contratti a tempo indeterminato, stipendi sicuri, famiglia e pensione, e l'attesa di tempi economicamente migliori.Nel frattempo i precari sono diventati sottoprecari. Sono i nuovi "giovani": i trentenni, i ventenni, e via via con un esercito di sbandati alle prese con piccoli lavoretti, lauree, master e titoli vari a bizzeffe, attese interminabili di una chiamata per il lavoro della propria vita che non arriva mai, stipendi e ricompense a spizzichi e capacità di progettare il futuro portata (non per colpa loro) a zero.Ma c'è anche il lavoro degli sfruttati, perlopiù giovani e pieni di promesse. Perché il lavoro, nonostante la crisi, continua ad esserci, e a fruttare; solo che ad avvantaggiarsene sono solo pochi sfruttatori.

Secondo i recenti dati Istat, in Italia, la quota dei lavoratori "non standard" sta per sorpassare quella dei lavoratori "standard". Questi ultimi si attestano sul 53,6% degli occupati, di cui fanno parte i contratti a tempo indeterminato ed a pieno compenso. Dall'altra parte stanno i "non standard" appunto, gli "atipici": i collaboratori a progetto, i part-time, i "dipendenti con partita Iva", etc.Insomma, aggiungendo ai lavoratori instabili altre categorie come cassintegrati e disoccupati, si può ben notare che ormai "trabocca il sacco" e nel 2013 i lavoratori "standard", dipendenti a tempo pieno, sono diventati una minoranza rispetto a tutti gli altri.

Con il rischio che il "non standard" sia diventato uno standard, e viceversa (Istat, Rapporto Annuale 2013).I precari sono soprattutto giovani, i 30-49enni, donne, e delle regioni meridionali. Nel 2012 un lavoratore atipico su due ha avuto un contratto con durata inferiore all'anno e la retribuzione media mensile netta a tempo pieno è circa il 25 per cento inferiore a quella di uno standard.Nell'ultimo anno, nel Mezzogiorno, il tasso di disoccupazione dei giovani fra 15 e 29 anni ha raggiunto il 37,3%; una quota rilevante è costituita dai cosiddetti Neet, i giovani che non lavorano e non frequentano alcun corso d'istruzione o formazione.

Mentre il tasso generale di disoccupazione in Sicilia ormai tocca il 21,6%.

A Mazara del Vallo non ci sono ancora dati certi recenti. In base ad alcuni indicatori socio-economici dei Comuni della Sicilia (Istat, Regione Siciliana), risalenti al 2008, a Mazara gli addetti ai servizi risultano essere la maggioranza (addetti alle industrie 35,8%, addetti ai servizi 64,2%, grado di turisticità 4,9), industrie pochi, turismo pochissimi.Dal quel che si sa a Mazara, e si dice in giro, la cittadina, a parte la disoccupazione, è caratterizzata da un esteso e pervasivo fenomeno di subdolo sfruttamento dei lavoratori - spesso precari o part-time - da parte dei datori di lavoro, e ciò accade soprattutto nel settore dei servizi e del commercio.

Ma come può succedere e trovare terreno fertile tale pratica?Sempre più spesso voci riferiscono di commessi/e delle varie attività commerciali o di addetti alla ristorazione che arrivano a percepire al mese dalle 250 alle 400 Euro appena (500 se responsabili di un punto vendita), spesso non in regola e con gli straordinari non pagati. La maggior parte di questi lavoratori silenziosi, perlopiù giovani e donne, non hanno il coraggio di lamentarsi o ribellarsi al padrone-datore, o perché quelle trecento euro fanno comodo in tempi di crisi, o perché hanno famiglia e ne hanno estremo bisogno, oppure perché hanno semplicemente paura delle conseguenze.

Se si ribellano, il più delle volte, perdono il lavoro, sostituiti subito da altri lavoratori bisognosi, e il rischio e che non li vuole più nessuno, perché scomodi e destabilizzanti di questo sistema di sfruttamento.La città di Mazara si è ormai quasi svuotata. Molti preferiscono trovare lavoro fuori, al Nord o all'Estero, alla ricerca di condizioni e trattamento -quando li trovano- migliori; quelli che rimangono sono costretti ad accettare, spesso per anni, queste regole del gioco nostrane, "poco professionali".

Spesso questi padroni-datori di lavoro gestiscono più attività commerciali della città e dettano legge. Ci sono casi di buste paga da 1.200 euro firmate anticipatamente dai dipendenti, senza costrizione, che in realtà nascondono però paghe da quattrocento euro, attraverso taciti accordi consensuali.Tutti sanno, ma nessuno dei lavoratori, soprattutto chi si trova in condizioni di bisogno, ha gli strumenti per ribellarsi a questo fenomeno immorale. Mancano i controlli delle istituzioni, e quando sono presenti spesso sono conniventi.

Poche o nessuna formazione politica ha veramente a cuore questo problema.

Ma c'è chi ha avuto il coraggio di ribellarsi a questo sistema autorizzato di sfruttamento che spesso si muove nel pieno rispetto delle leggi, sfruttandone i cavili a tutto vantaggio del datore di lavoro.Antonio, mazarese, ha lavorato per sei mesi in nero in una redazione televisiva come tecnico audiovisivo. Quattrocento euro al mese, con la promessa che sarebbe stato messo in regola. Turni alternati con i colleghi per tutto il giorno, fino a notte, anche la domenica.

Da giugno non viene più pagato, ma continua lavorare per ancora tre mesi. Poi non ce la fa più, vanta un credito dal suo capo di milleduecento euro, e per di più lavora ancora in nero. Antonio esige i soldi che si è guadagnato lavorando. Il suo datore di lavoro afferma che i soldi non ce li ha, ma poi prende una carta di cinquecento euro dalla tasca e glieli tira in faccia. Decide di denunciarlo al sindacato, glielo dice pure al suo capo che, per tutta risposta, sbotta: "Se tu mi denunci non lavorerai più né qui né a Mazara".

Ma lui lo denuncia lo stesso, e tra varie fasi successive, proposte di riconciliazione, processo celebrato, passano ben cinque anni. Antonio vince la causa ma i soldi -nel frattempo ricalcolati- non ci sono: l'impresa televisiva, che intanto ha cambiato nome, non ha i soldi per pagare."Il vero problema -dice Antonio- è che essendo giovani ho notato che in realtà non gliene importa nulla di cambiare la situazione. A tutti fanno comodo trecento euro o giù di lì, ma quello che manca è un pizzico d'amor proprio.

E' un po' semplicistico ma è così, perché tanto le commesse si possono lamentare quanto vogliono ma poi rimangono anni, con un po' d'amor proprio se ne sarebbero andate prima e magari anche a denunciarli..".Molti in realtà arrivano al punto di denunciare il proprio datore di lavoro, ma poi, alla fine, ci ripensano. Per paura, chissà, paura della crisi, paura del futuro..

Vincenzo De Santi

03-09-2013 9,30

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