“Dirty Oil”, anche un deposito mazarese coinvolto nell’inchiesta sul petrolio rubato in Libia

Redazione Prima Pagina Mazara
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18 Ottobre 2017 15:35
“Dirty Oil”, anche un deposito mazarese coinvolto nell’inchiesta sul petrolio rubato in Libia

Anche un deposito di carburanti nel territorio di Mazara del Vallo sarebbe coinvolto nell'inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica e condotta dal Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Catania volta a sgominare un’organizzazione internazionale impegnata nella vendita e distribuzione di petrolio rubato in Libia.

"Un complesso mosaico di interessi -si legge su Catania Meridionews.it- che dalla Libia passa per Malta, poi raggiunge la Sicilia e altri porti italiani e infine la Spagna e la Francia. Con profitti da decine di milioni di euro. Lo spaccato descritto dall'inchiesta Dirty oil è un gioco di trame e sotto trame. E al centro della partita c'è Catania. L'articolata organizzazione transnazionale finalizzata alla vendita e alla distribuzione del petrolio rubato dalla raffineria libica di Zawyia, situata a 40 chilometri da Tripoli, sarebbe stata composta dalle figure più disparate: c'è il capo di una milizia libica sospettata di sostenere l'Isis in patria, ma anche un uomo che alcuni collaboratori di giustizia indicano come appartenente al clan mafioso Santapaola-Ercolano.

Nel complesso gli indagati sono 50. L'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Catania contempla nove arresti, sei in carcere e tre ai domiciliari. Dietro le sbarre finiscono anche personaggi già noti agli inquirenti italiani. Ma la figura centrale dell'affaire gasolio sarebbe Fahmi Mousa Saleem Ben Khalifa, capo di una milizia armata attiva sulla costa libica al confine con la Tunisia, tra le città di Zawyia, Zuara e Sabrata. Il sito specializzato Gli occhi della guerra lo definisce «uno dei più grandi trafficanti di esseri umani, petrolio e droga del Mediterraneo». Soprannominato «il Malem» (il capo), era fuggito dal carcere nel 2011 alla caduta del regime di Muammar Gheddafi. Stava scontando una condanna a 15 anni per traffico di stupefacenti. I suoi incarichi dirigenziali in società petrolifere lo avrebbero favorito nel trafugare il carburante dalla raffineria di Zawyia.

Pescherecci e piccole navi da trasporto in suo possesso avrebbero portato in acque libiche e maltesi il prodotto, poi trasferito a imbarcazioni commerciali della Maxcom bunker spa con il metodo «ship to ship», ovvero affiancamento e pompaggio da una nave all'altra attraverso una potente tubazione. Il procuratore capo Carmelo Zuccaro è convinto che una parte dei profitti dell'organizzazione sia finita nelle casse dell'Isis per il suo tramite. Sebbene la circostanza non riguardi questa indagine, dietro il traffico transfrontaliero di esseri umani - almeno in parte - ci sarebbero lui e altri indagati di Dirty Oil.

Il metodo. Secondo la procura di Catania, il petrolio sottratto alla Noc (National oil corporation, l'unico ente libico dotato del potere di vendere legalmente il petrolio) è un carburante contenente una percentuale di zolfo inferiore allo 0,1 per cento, pertanto destinato al bunkeraggio, ovvero il rifornimento di navi e altre imbarcazioni. Le vedette Maxcom lo trasportavano fino al porto di Augusta, da cui, via terra, raggiungeva il deposito di Mazara del Vallo. Da lì, veniva distribuito in Sicilia e in Campania o spedito ai porti di Civitavecchia e Venezia, e poi raggiungeva anche la Spagna e la Francia.

Magistrati e guardia di finanza ritengono che, dal giugno 2015 al giugno 2016, oltre 30 carichi abbiano attraversato il Mediterraneo trasportando circa 80 milioni di chili di gasolio, per un valore (all'acquisto, non di mercato) di circa 30 milioni di euro. L'Iva evasa sul territorio italiano ammonterebbe a undici milioni di euro. In una prima fase, attraverso documentazione falsa, Ben Khalifa faceva credere che il prodotto fosse saudita. Poi l'aumentata attenzione dei media sui traffici marittimi sospetti di mezzi e beni tra la Libia e la Sicilia gli avrebbe consigliato di utilizzare il marchio libico, ovviamente falsificato.

Il profitto dei compratori era dato dal prezzo più basso offerto da Khalifa rispetto a quello di mercato (in alcuni casi addirittura del 60 per cento) e dall'evasione dell'Iva e delle accise. Ma tra gli indagati ci sarebbero anche una decina di titolari di stazioni di distribuzione Eni di Catania e dell'hinterland, ritenuti compiacenti, che avrebbero acquistato il gasolio dalla presunta organizzazione a prezzi da affare, rivendendolo agli ignari consumatori dopo aver manomesso le colonnine con il sostegno di un tecnico, anch'esso finito nel mirino degli inquirenti. Proprio da queste anomalie l'Eni avrebbe estratto il materiale riassunto in una denuncia da cui è partita l'inchiesta.

Per smantellare la presunta banda del petrolio, le fiamme gialle - in particolare il Gico, ma con il sostegno dello Scico - hanno sperimentato per la prima volta in Italia apparecchiature capaci di captare conversazioni effettuate tra telefoni satellitari. La stima autentica dei profitti del gruppo è resa difficile, quasi impossibile, dalla miscelazione del gasolio, operata non appena il prodotto raggiungeva il deposito di Mazara del Vallo. Una mescola che per altro diminuiva la qualità del carburante, all'insaputa dell'acquirente al dettaglio”.

La Redazione

18/10/2107

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