“Una punta di Sal”. Mediterraneo infuocato

Il Mediterraneo “frontiera” fra Africa ed Europa. Prima non era così. Il dramma dei migranti in “Io Capitano”

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
01 Ottobre 2023 09:54
“Una punta di Sal”. Mediterraneo infuocato

Prima non era così. Non era frontiera. Oggi i cadaveri in fondo al mare non si contano più. Storie tragiche, di disperazione, di guerre corsare, è successo di tutto nel Canale di Sicilia. Ma anche storie d’amore, favole. Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo, in un articolo di qualche anno fa, racconta che nella Novella della Seconda della Giornata Quinta del “Decamerone” di Boccaccio, Costanza, di nobile e ricca famiglia di Lipari, amava ed era riamata dal povero pescatore Martuccio.

Per l’impossibile amore, il giovane abbandona l’isola, si fa corsaro per il Mediterraneo. Costanza, avuta notizia che Marcuccio era morto, disperata sale su una barca per andare alla ventura e lasciarsi morire, ma il vento la sospinge e la fa approdare sulla spiaggia di Barberias, nei pressi di Susa. Sulla spiaggia la fanciulla si imbatte in una donna che parla latino. Costanza domandò “chi fosse la buona femmina che così latin parlava; a cui ella disse che da Trapani era e aveva come nome Carapresa; e quindi serviva alcuni pescatori cristiani”.

Al di là della storia d’amore che poi felicemente si concluderà, come nelle fiabe colpisce il fatto che pescatori cristiani, trapanesi, tranquilli, soggiornassero e pescassero nelle acque della musulmana Tunisia di Susa, oggi Sousse. E conferma che ancora nel Medioevo quel canale, quel braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane, libiche, tunisine, algerine, non fosse ancora frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio, che quelle acque anzi venissero allora percorse solo in un senso, di lavoratori di Sicilia, Calabria, Sardegna che volendo sfuggire alla fame cercavanofortune in quelle ricche terre degli “infedeli”.

Provetti “Tonnaroti”, lavoratori delle tonnare, pescatori di alici e sarde, di spugne e di coralli, da Trapani, da Pantelleria, da Lampedusa, si avventuravano sulle loro esili barche per quel Canale, e insieme a loro contadini, pastori, muratori, minatori di ogni parte del Meridione. Mazara non si era ancora scoperta città “marinara”. C’erano da curare i grandi feudi perchè era l’agricoltura la fonte del benessere. Il Mare e la pesca erano frequentati da quattro “barchette” in legno che si avventuravano di qualche centinaio di metri dalla costa per portare a casa un po’ di pesci piccoli.

Il Maghreb era lontanissimo. Successe però che la comunicazione dei lavoratori del nostro Meridione e della Sicilia, in particolare, si interruppe con la dominazione turca sulle coste africanee quella spagnola in Sicilia con Il sorgere delle guerre corsare. Carlo V si spinse fino in Tunisia per combattere ed umiliare il nemico. Arrivarono tempi bui per i nostri migranti. Scrive Fernand Braude, storico francese, uno dei principali esponenti della scuola storiografica che studia la storia delle civiltà indagando i cambiamenti: “Il tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori”.La fine degli anni Sessanta segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra.

A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto a Trapani, si stanziano a Mazara, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia. Sono passati oltre trent’anni da questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessun accordo tra governi, fino a giungere alle tragedie di oggi dell’immigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalla guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con improvvisati metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.

Di fronte agli episodi di Lampedusa, di Pantelleria, di Caltanissetta o Agrigento – scriveva 25 anni fa sul Messaggero Vincenzo Consolo – di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, di fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti”. Ieri come ora, quindi. Non è cambiato nulla. E basta guardare il film di Matteo Garrone, “Io Capitano” , in sala da alcuni giorni, per rendersi conto di cosa è l’emigrazione.

La storia da cui attinge Garrone si ispira alle vicende reali di alcuni migranti: su tutte quella di Kouassi Pli Adama Mamadoum che arrivò in Italia quindici anni fa dalla Costa d’Avorio dopo essere stato imprigionato e torturato per 40 mesi in un campo libico, e quella del minorenne Fofana Amara, che aveva portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione partita dalla Libia e, una volta in Italia, era stato arrestato e condannato come scafista. Storie da film? No, storie reali.

Salvatore Giacalone

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