Riesco a vedere appena la sua fronte, sotto una tenda di capelli blu e viola. Stiamo in silenzio, come in un tempo sospeso. Lei si tormenta le mani, appoggiate sulle gambe magrissime nascoste dentro una tuta nera di due taglie più grandi. Dobbiamo reggere il silenzio, io e lei, anche se il silenzio fa paura. Somiglia all’angoscia che la prende quando salta il wifi e ha finito i giga, e niente serie, niente Anime, niente video, niente chat. Conserva, da qualche parte, la lama del temperamatite. Le serve per disegnare sottili strisce rosse sulle braccia, sulle cosce, sulla pancia. Si illude che il dolore fisico, non le faccia sentire il dolore dell’anima. Stiamo così: ve volesse, potrebbe alzarsi e andare via. Ma resta. Nei mesi seguenti, mi dirà che ero la sua carceriera e per questo mi odiava, e che ero anche la sua possibile spiegazione e per questo mi amava.
Un giorno arriva e ha una piccola pinza che le tiene i capelli, posso finalmente vedere i suoi occhi bellissimi, verdi e stretti come fessure da cui passa la luce. Si tira su la manica della felpa pesante (io ho caldo, sempre caldo, lei invece ha sempre il gelo dentro): niente tagli “freschi”, solo vecchie strisce più scure. E mi guarda come a dirmi “ E ora? Che facciamo”.
Le propongo di uscire con me. E’ troppo, temo. Sono passati solo un paio di mesi dal nostro primo silenzio. E invece, fa di sì con la testa. Lungo il corridoio riabbassa il capo, e ancora non posso toccarla. È lei che mi da la misura, è lei che mi indica la giusta distanza. Niente ascensore, soffoca là dentro. Giù per le scale, veloci. Il mare non è lontano, ma bisogna andare dove non c’è gente. Un messaggio veloce alla madre, perché mi dia il suo consenso. Allora in macchina, sento il suo cuore battere forte: raddoppia il mio.
Scendiamo qui. Sulle rocce. Il cielo è bello, e le nuvole bianche di ottobre, solo state lavate dalla pioggia.
Cosa vedi? Niente. Guarda meglio, cosa vedi? C’è luce, mi dice, con una voce che mi entra nella pelle. E io sento il mio respiro nel mio essere lì con lei. Non devo pensare ad altro. Ho lasciato il cellulare in macchina: che nessuno mi disturbi. Lei deve sentire di essere importante per me.
Tu cosa vedi? Mi chiede, forse per cortesia. E io inizio ad elencare tutto ciò che vedo: le rocce, gli arbusti, una bottiglia di plastica abbandonata, un pannolino, dei fiori piccoli, i sassi, il cielo, le nuvole, guarda che forma! Cosa sembra? Un orso che ride, un cane con il muso lungo, la torre di un castello…
Tutte queste cose vedi? Sì, le rispondo, guarda anche tu. E lei comincia, con una cantilena che somiglia ad un lamento o forse ad una filastrocca imparata da bambina: vedo un mozzicone di sigaretta, anzi due, una lucertola, il mare, le nuvole ... che forma? Una bambina triste...
Provo a metterle una mano intorno alle spalle, minute come quelle di un passerotto. Lei me lo permette, non si ritrae. Guarda là in fondo, le dico. Dove? Non c’è niente. Guarda ancora, guarda bene… quella linea su cui sembrano sedersi le nuvole. E’ l’orizzonte. Sì, lo vedo. E ora, guarda oltre. Non vedo niente…e allora immagina, pensa a quante cose potrebbero esserci.
È che bisogna saperle guardare le cose…Quali cose? Tutte le cose, quelle che si vedono e quelle nascoste. Quelle che si impongono e quelle che fuggono. Bisogna saperle guardare. E gli occhi, bisogna saperli allenare, e tenerli puliti, e lucidi.
Io guardo sempre il cellulare, c’è tutto.
Pure questo? Lei si gira lievemente verso di me. No, mi dice, questo no.
Quando torniamo, le chiedo se ha voglia di dirmi qualcosa. Tace, fino al parcheggio. Prima di scendere: te la voglio dire una cosa, penso che domani ritorno a guardare l’orizzonte. La madre ci aspetta, la guarda con disperato amore. Lei riabbassa la testa. Ancora tanta, tanta strada da fare.
E penso a tutte le volte che non abbiamo, noi per primi, guardato l’orizzonte e non abbiamo avuto il coraggio di andare oltre e di meravigliarci, e a quante volte abbiamo commesso il peccato d’omissione, di non avere testimoniato lo stupore, la bellezza, la meraviglia. E penso ai sogni che abbiamo mortificato, alle ali che abbiamo spezzato con il nostro cinismo da adulti disillusi e disincantati…
Poi per fortuna prendo fiato e vedo i giovani ricercatori appassionati, applaudire il loro professore premio Nobel, e i nostri ragazzi rinunciare al loro svago e offrire tempo ed energie ai braccianti di colore che hanno perso tutto in un incendio (uno di loro, anche la vita), ai giovani attivisti che ripuliscono le spiagge, ai compagni disponibili ad aiutare quelli che fanno più fatica, a chi pensa ancora che una chitarra può sollevare il mondo e a chi riesce ancora a pregare e non solo prima di una interrogazione a allora anche io riapro gli occhi: a saperle guardare le cose, c’è del buono e del bello anche al di qua dell’orizzonte.
Con gli occhi aperti, e il cuore spalancato.
di Maria LISMA
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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