Ultime della sera: La scatola dei ricordi e il primo viaggio in America

Sedici anni fa l’avventura a Jacksonville, terra degli alligatori, alla ricerca del carbon coke

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
09 Giugno 2021 18:30
Ultime della sera: La scatola dei ricordi e il primo viaggio in America

Accade spesso che, mentre sei nel bel mezzo delle pulizie di Primavera (e la casa è un cantiere, le stanze sottosopra, i mobili ammucchiati in un angolo e le finestre nude e senza tende), trovi una scatola e ti fermi.

E’ una scatola di quelle belle, che hai scelto con cura prima di acquistarla, perché destinata a celare e custodire ricordi importanti. Non parliamo di oggetti di valore ma di immagini di vita vissuta, di pezzi di storia che altrimenti andrebbero persi per sempre. Così ti fermi, prendi una sedia e ti accomodi. Il momento è di quelli solenni: ricordi perfettamente dove e quando hai sentito la necessità e l’urgenza di cercare e trovare quello scrigno prezioso destinato a cose importanti, ma non ricordi affatto cosa alla fine ci hai ficcato dentro.

Sollevi il coperchio e osservi l’interno: tutti gli oggetti riposti dipingono un quadro armonico e perfettamente organizzato. Ogni pezzo è stato sistemato con cura, così da non disturbare o rovinare quello sotto o di lato. Sollevi la penna con la quale hai firmato il tuo primo contratto, il timbro che recita il tuo nome in tridimensionale, i bigliettini da visita su carta pregiata che per pagarli c’era voluto un mezzo mutuo. Parliamo all’incirca di una vita fa.

In un angolo, una copertina di plastica con dentro la foto tessera avanzata dopo la consegna dei documenti per il tuo primo passaporto. “O mamma mia!”. Esclami nella tua testa, “Ma quanto piccola ero?”. Una delle prime macchine digitali della Polaroid ancora diligentemente conservata nella sua scatola d’acquisto, il primo video telefono della storia (di cui avevo acquistato due esemplari così da poterne regalare uno a mio nipote appena nato per poterlo vedere anche a migliaia di chilometri di distanza) e alla fine, quasi a creare un doppio fondo con la scatola, un giornale.

Eccolo il capolavoro della collezione! E’ lui il pezzo da novanta! All’improvviso ti ricordi perfettamente dove e quando scegliesti quel cofanetto, non tanto per la fantasia che riportava tutt’attorno, quanto per le dimensioni: fondamentali e necessarie per contenere, senza rovinarlo, un quotidiano formato tabloid ripiegato a metà.

Di pezzi, nell’arco della mia carriera da giornalista, ne ho scritti tanti. Così come tante sono state le testate che, bontà loro, hanno voluto ospitarmi. Sono davvero poche le testimonianze di un mondo passato che sono riuscita a conservare dove gli archivi digitali ancora non esistevano e internet era relegato a faccenda da articoli di super cervelloni destinati a magazines per iper super specializzati.

Ma qualcuno (pochi in verità) sono riuscita a salvarlo e sono ancora (tutti) su carta! I miei ricordi più belli, i miei gioielli più preziosi, da custodire a costo della vita. Perché a che vale una vita senza storia e senza ricordi?

Questo che vi ripropongo e che sto ricopiando parola dopo parola, con la pazienza dei Santi che mi contraddistingue, risale al 17 luglio 2005. Era una domenica ed ero appena tornata dal mio primo viaggio in America, ospite dell’Enel, per visitare la prima e unica centrale al mondo di energia elettrica alimentata a carbon coke, altrimenti detto: carbone pulito.

Non entro nel merito del tema del viaggio perché lo ritengo ormai superato ma spero troviate avvincente, così come l’ho trovato io 16 anni dopo, il racconto di quell’avventura. Lo stile è ancora un po’ acerbo ma il tratto rimane il mio, senza alcun dubbio! Mi sono emozionata a rileggerlo dopo tanto tempo, spero faccia un qualunque effetto anche a quanti se vorranno, si cimenteranno. Buona lettura!

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Jacksonville non è esattamente la città che rappresenta il mito americano. Difficile che su quella immensa e più o meno desolata landa semidesertica si possa realizzare il sogno a stelle e strisce. Il suo unico merito è quello di ospitare al suo interno il cuore più antico degli Stati Uniti: Sant’Augostine, agglomerato di origini spagnole che assomiglia piuttosto ad un set da film western. Poca cosa, si penserà per chi come gli italiani sono abituati a ben altro che ad appena 200 anni di storia.

Per il resto Jacksonville si sviluppa per chilometri tra i meandri paludosi della Florida, tra centri commerciali, grattacieli di ‘potere’ (nemmeno troppo alti e nemmeno troppo potenti) e unifamiliari a due piani (ma anche su una sola elevazione) costruite col cartone. Nulla da vedere, dunque. Nulla che valga talmente la pena da convincere un provetto ‘turista’ a scegliere quella città per cominciare a conoscere l’America.

Eppure il nostro viaggio comincia (e finisce) proprio lì, a Jacksonville, la città degli alligatori. E non perché il provetto turista che scrive abbia chiuso gli occhi e scelto a caso un punto sulla cartina geografica degli Usa, ma perché in quella porzione di terra, dall’altra parte dell’Oceano, qualcuno ha chiesto ed ottenuto che andasse.

Il motivo è presto detto: a Jacksonville esiste una delle prime e più importanti centrali termoelettriche a carbone del mondo, la stessa che il colosso internazionale in fatto di energia elettrica, l’Enel intende replicare nella Capitale dei Cesari.

Ospiti dell’Enel, giornalisti e amministratori dell’Italia del Nord e del Centro, sono partiti alla volta dell’America per capire come e se funziona quel mostro di acciaio e carbone. Due i siti individuati per ‘ospitare’ la centrale, entrambi bellissimi e complicati: il primo è Civitavecchia, dove a Torre Valdaliga Nord, l’Enel ha già cominciato i lavori di conversione della vecchia centrale a olio combustibile. L’altro è Porto Tolle, proprio sul delta del fiume Po.

Nessun altro esempio, se non quello di Jacksonville avrebbe potuto risultare calzante, visto che la centrale americana è stata costruita e funziona in una delle aree naturali protette e ancora incontaminate della Florida: la riserva di Timucuan.

Eppure quel groviglio di tubi cromati che si staglia e copre il cielo di quella porzione di America pare riesca perfettamente a far convivere con i manatee (nella nostra lingua: buoi marini), vegetazione tropicale ed esseri umani. Bastava sentire l’orgoglio con cui i responsabili della centrale americana parlavano (in americano corrente) del loro ‘gioiello’ per capire quale ‘straordinarietà’ avevamo davanti agli occhi.

Lo scopo della visita (durata appena tre giorni) non era quello di convincere gli astanti della bontà del progetto, né di stordirli con i fasti targati U.S.A. (anche perché vi assicuro che a Jacksonville non si trovano manco a cercarli). Ma di appurare e constatare l’effettivo funzionamento dell’impianto.

Regola fondamentale di ogni giornalista (o di chi si professa tale, nella fattispecie con tanto di elmetto e occhiali protettivi ‘montanti su’) è di verificare la notizia e informare e divulgare i risultati della sua inchiesta. Anche se la temperatura esterna è pari a 38 gradi all’ombra e il grado di umidità è fuori da ogni calcolo matematico (almeno in Italia).

Così siamo andati a vedere e capire che cos’è una centrale elettrica alimentata a carbone. Trattasi di un impianto mastodontico, il cui valore si aggira intorno a svariati miliardi di euro (o dollari in base al conio locale) e che produce energia elettrica. La stessa che comunemente utilizziamo per accendere una lampadina, guardare la Tv, azionare il phon, piuttosto che il forno o il condizionatore.

Quella insomma che c’è (e lo diamo per scontato) a prescindere, ma senza la quale non potremmo ormai più vivere. Solo che oggi, queste molteplici operazioni di routine cominciano ad essere messe in discussione. L’Enel, ormai è di dominio pubblico, non è più un’azienda statale ma una società per azioni. Dunque, per vivere e produrre energia, deve garantire un dividendo ai soci. Per fare questo ha bisogno di contenere i costi, ottimizzare le risorse e registrare ricavi.

Oggi si scopre che il petrolio (sfruttato sin dagli anni ’60 per produrre energia) non è più competitivo sul mercato. In soldoni: costa troppo. E poi (solo ora purtroppo si comincia ad ammettere) inquina. Il nucleare non può certo essere considerato l’alternativa (per quanto sia il combustibile più pulito in assoluto ha un unico limite: lo smaltimento delle scorie. E l’Italia ha già categoricamente detto di no una volta).

L’alternativa è stata pescata tra i meandri della storia antica: solo che oggi non si chiama più carbone (nelle miniere del Belgio, per fare solo un esempio, ne sono morte di persone avvelenate) ma clean coal (che tradotto vuol dire: carbone pulito). Che significa? Semplice (almeno questo): si tratta di un combustibile fossile pulito, che conserva al suo interno solo l’1% di zolfo piuttosto che il 3. Insomma, una volta bruciato, inquina di meno: dati alla mano, si parla di circa il 60% in meno di emissioni gassose a fronte di un aumento, in termini di produzione di energia elettrica, pari a tre volte quella prodotta attualmente. E con un disimpegno di un’unità rispetto alle attuali funzionanti (tre su quattro).

Trattasi di miracolo? Non crediamo. Ma a Jacksonville (e lì non utilizzano ancora il carbone pulito ma quello ‘tradizionale’) abbiamo visto la darsena costruita ad hoc e il braccio meccanico ‘a tazze’ (costo circa 8 milioni di euro) che raccoglierà il carbone e (sia a Civitavecchia che a Porto Tolle), con un sistema di nastri trasportatori chiuso e non a contatto con l’aria lo trasporterà in cupole sigillate e dall’aspetto avveniristico (in Italia queste strutture non esistono ancora) che stoccheranno e lavoreranno il combustibile fossile (carbone) fino a mescolarlo al calcare (che assorbe ulteriormente la percentuale di zolfo) e quindi bruciarlo. Ciò che otterremo alla fine di questo processo sarà energia elettrica.

Abbiamo visto che l’operazione non produce polveri o nubi tossiche. Nessuna nube nera si alzerà in aria né al momento dell’accoglimento del carbone, né durante la sua lavorazione. Non sappiamo (perché non siamo addetti ai lavori) cosa uscirà dal camino (la torre a strisce rosse e bianche caratteristica di ogni centrale) degli impianti una volta ultimato il processo. I tecnici, gli ingegneri che ci hanno accompagnato e spiegato passo passo ciò che stavamo vedendo, ci hanno assicurato che le emissioni di So2 (anidride solforosa), Nox (ossidi di azoto) e Particolato (polveri) saranno notevolmente inferiori (con picchi fino all’80% in meno rispetto agli attuali). In altre parole, niente più coltri di pulviscolo nero che ammantano le auto all’alba o che lordano le lenzuola bianche appena stese (scene queste che i civitavecchiesi hanno imparato a conoscere molto bene negli anni passati).

A denti stretti, Torre Valdaliga Nord, una volta convertita, non sarà un’altra Fiumaretta (ormai fortunatamente chiusa e dismessa). A vantaggio della loro tesi i tecnici portano i risultati degli ultimi decenni di studi e ricerche. L’unico conforto a sostegno dei cittadini rimangono i dati: primo tra tutti, il fatto che Torre Valdaliga Nord sta convertendo i suoi impianti a carbone perché in possesso di tutte le autorizzazioni necessarie previste dalla legge (i lavori attualmente in atto, dovrebbe essere pubblicati entro il 2007. La produzione a carbone, se i tempi saranno rispettati, avrà inizio nel 2008).

Magra consolazione, si potrebbe tranquillamente pensare: anche gli impianti precedenti erano, almeno sulla carta, perfettamente in regola con visti e bolli necessari. Plausibile, ma la ‘moda’ dell’ambiente, del rispetto dell’habitat naturale, è scoppiata in tempi relativamente recenti e nonostante la sua giovane età, è riuscita a stimolare e produrre una notevole mole di normative al riguardo (non ultimo il protocollo di Kyoto).

Negli ultimi vent’anni le leggi sulla tutela dell’ambiente si sono moltiplicate. E questo è un altro dato. C’è di più: Torre Valdaliga Nord e l’impianto di Porto Tolle insieme (per quest’ultima in provincia di Rovigo, si attendono ancora le autorizzazioni per la conversione) una volta entrate a regime produrranno, in totale, il 9 per cento del fabbisogno energetico dell’intera penisola italiana. Perché proprio in questi due siti? Perché sia a Civitavecchia che a Porto Tolle esistono già degli impianti ad olio combustibile che producono energia elettrica e che sono riconvertibili secondo legge. E questo è un altro dato ancora.

Insomma, quello che i camini di questi impianti disperderanno nell’aria sarà quanto di meglio la tecnologia attuale può garantire. Parola dell’ingegnere Ennio Fano, responsabile delle politiche ambientali dell’Enel, ‘capo spedizione’ della visita a Jacksonville e residente a Civitavecchia da oltre 25 anni. “Vivo all’ombra della centrale di Torre Valdaliga Nord con la mia famiglia ormai da decenni – ha spiegato alla delegazione americana -. Ho toccato con mano gli ‘effetti collaterali’ di Fiumaretta. Abbiamo lavorato anni per superarli e certamente non torneremo indietro”.

In sede processuale un dato (prova) vale quanto una testimonianza diretta. Non spetta a noi, in questa sede, stabilire e sentenziare. Solo la storia potrà confermare o confutare. Il nostro dovere è un altro: descrivere e raccontare ciò che abbiamo visto e sentito. Fermo restando il fatto che non siamo addetti ai lavori.

Magari tra dieci anni ci diranno che il carbone (così come oggi il petrolio) non è più competitivo dal punto di vista economico e inquina. E magari ci diranno anche che i telefonini fanno male e dovremo cambiare impianti e sistemi telefonici. E ancora ci racconteranno che i neonati malformati di Gela sono solo stati un assurdo, paradossale e abominevole ‘scherzo’ della natura. Rimane il fatto che quando questa sera entreremo a casa la prima cosa che faremo, ognuno di noi, sarà attivare l’interruttore della corrente elettrica per accendere la luce. E questo rimane, in assoluto, un fatto incontrovertibile. Per chiunque viva nel ventunesimo secolo.

di Carmela BARBARA

La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

Per contatti, suggerimenti, articoli e altro scrivete a: amicidipenna2020@gmail.com

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