Ultime della sera: “Ventotto anni dopo”

Redazione Prima Pagina Mazara

Sono passati ventotto anni dalla strage di via D'Amelio. E' un anniversario che si trascina lento, e non perchè il ricordo sbiadisca: quello è sempre vivo in tutti noi. Ma dopo ventotto anni di ricordi, di commemorazioni, di depistaggi, di processi da rifare, di amarezza, di fiumi d'inchiostro versati, di articoli, interviste, post e ricordi sui social, cosa rimane ancora da dire? E' come se le avessimo consumate tutte, le parole. Non è stato forse detto tutto? Abbiamo dimenticato qualcosa? Anno dopo anno abbiamo fatto di tutto per tenere viva la memoria, per non dimenticare, per venire a capo di quegli anni bui, per conoscere la verità.

Ciascuno di noi ha una sua personale memoria, un suo intimo ricordo di quel 19 luglio. Chi viveva a Palermo ricorda il boato, la nuvola di fumo che si alzò verso il cielo, quel tritolo arrivato da lontano che faceva saltare in aria le auto e sventrava le strade. Chi non si trovava a Palermo ricorda l'edizione speciale del telegiornale, lo sgomento, il dolore che si rinnovava esattamente 57 giorni dopo il 23 maggio, un dolore se possibile ancora più urente perchè si è trattato della  più grande cronaca di una morte annunciata che questo Paese abbia mai avuto.

E, a seguire, anche il più grande depistaggio della storia giudiziaria del nostro Paese. Ma lui, Paolo Borsellino, cosa penserebbe di tutto questo? Cosa direbbe se potesse parlare? Sarebbe riconoscente per i tributi che la gente negli anni gli ha riservato, per la riconoscenza, la stima, l'affetto, qualcuno un po' tirandolo per la giacchetta, o prevarrebbe la delusione, l'amarezza, per uno Stato che non è riuscito a far luce su quella strage, a far emergere la verità, a continuare il lavoro che lui, cosi testardamente e coraggiosamente, dopo la morte di Falcone, in una drammatica corsa contro il tempo per rinviare l'appuntamento a Samarcanda, stava portando avanti? Per quell'agenda rossa mai più ritrovata, per i depistaggi, per le menzogne? Per aver fatto di lui per 57 giorni un morto che camminavaa? Racconta suo figlio Manfredi che  ha cominciato a piangere la morte di suo padre già il 23 maggio, quando insieme vegliavano la salma di Giovanni Falcone.

Cosa penserebbe Borsellino di questo Stato per cui si è immolato, della Sicilia, dei siciliani, di quello che siamo diventati? La verità è che all'indomani di quel tragico 1992 abbiamo tutti pensato che da quel momento, in questa terra, tutto sarebbe cambiato. Che ci saremmo risvegliati. La realtà è che viviamo in un territorio dove persiste una classe politica e dirigenziale che ogni giorno viene travolta da inchieste e arresti,dove la corruzione, il malaffare e spesso la connivenza tra politica e mafia, tra imprenditoria e mafia, la fanno da padroni.

E magari alcuni di questi protagonisti di arresti eccellenti erano ragazzi nel 1992, e piangevano commossi davanti ai tg, andavano ai funerali a San Domenico, sfilavano in corteo per le vie di Palermo, appendevano lenzuola bianche alle finestre. Oppure, bambini, sono stati condotti nei luoghi dei martirii, o hanno partecipato a dibattiti e cineforum sull'antimafia nelle scuole. E' possibile che sia rimasto così poco di quel dolore, di quella commozione, di quell'afflato collettivo? Sarà per questo che si levano, insistenti, le richieste di interrompere le commemorazioni annuali, come ha proposto recentemente Claudio Fava? Io non so cosa penserebbe di tutto questo Paolo Borsellino, ma voglio riproporre una mia riflessione di qualche anno fa che considero ancora attuale.

“Ho visto una sola volta Paolo Borsellino, ed ero una liceale. Era un uomo giusto, sembrava che il senso di giustizia l'avesse dentro, lo avesse introiettato. Non tutti hanno questa aderenza perfetta tra ciò che sono e quello che dicono e che fanno. Quando lo fecero saltare in aria aveva 53 anni. Io ero ancora una ragazza e un uomo di 53 anni lo vedevo grande, con una vita già vissuta, quasi un anziano. Adesso, che mi avvicino anch'io verso questa età, penso che 53 anni sono maledettamente pochi per morire.

Che a 53 anni hai una vita davanti, progetti da realizzare, sogni da coltivare, figli da crescere, viaggi da fare, nipoti da vedere nascere. Paolo e Giovanni non volevano morire. Non volevano diventare eroi. Non volevano essere commemorati ogni anno. Non volevano diventare nomi di strade, di scuole, di piazze. Non volevano essere un aeroporto tra la terra e il mare. Noi ci siamo consolati trasformandoli in eroi, e cosi abbiamo messo a tacere i nostri sensi di colpa. Come a voler trovare un senso alla loro morte, iscrivendola dentro un disegno alto, grande, nobile, di riscatto di un popolo e di un territorio.

Ma ad ogni anniversario dovremmo coltivare il senso di colpa, non la gratitudine. Perchè loro sono morti e noi no. Loro sono morti e la mafia e il malaffare no. Loro non volevano diventare eroi. Volevano crescere i figli, amare le mogli, godersi i loro anni, fare una nuotata nel mare di Mondello e la spesa al supermercato, andare al cinema e passeggiare per le strade di Palermo da uomini liberi. Ma se muori facendo il tuo lavoro, quello per cui hai studiato e per cui vieni pagato, allora significa che vivi in una terra dannata che non merita niente.

Non ci sono altri grandi discorsi da fare”. Catia Catania