Ultime della sera: “Caro amico, ti scrivo”
di Paolo ASARO Carissimo amico Ho deciso di scriverti, non per parlarti dell’anno che verrà, ma per ricordare insieme a te, gli anni che furono. Ci conosciamo da quando eravamo ragazzini, avevamo circa undici anni e tu, pur essendo poco più piccolo di me, eri già molto spigliato, soprattutto con le ragazze o forse sarebbe meglio dire bambine, data l’età. Eri simpatico, gioviale, e non appena ne avevi l’occasione, lontano dagli adulti, ti lasciavi andare a frasi e battute volgari per essere ancora più simpatico, a discorsi coloriti che riguardavano costantemente la sfera sessuale.
Io mi chiedevo il perché, eri già così simpatico, non ne avevi bisogno, mi sembrava un eccesso che sporcava tutto. Forse ci siamo conosciuti al mare, qualche anno prima, io giocavo da solo, costruivo un castello di sabbia, tu giocavi a pallone con gli altri. All’inizio non vi importava nulla di me, ma appena il mio castello iniziò a prendere forma, tutti i ragazzini smisero di giocare e si avvicinarono con la bocca spalancata e gli occhi pieni di stupore. Tu rimanesti solo, col tuo pallone, guardando i tuoi compagni che ti avevano lasciato per venire a vedere la mia opera.
Quella fu l’unica volta in vita mia che vidi sparire dal tuo viso quel perenne sorriso di simpatia. Ma il tuo sgomento durò solo un attimo, risoluto, prendesti il pallone e con un calcio ben assestato lo lanciasti come un proiettile contro il mio castello che cadde in frantumi. Allora tutti si misero a ridere e la vita tornò alla normalità, voi a giocare a pallone, io a costruire meravigliosi castelli di sabbia, da solo. Non ho mai capito bene questa sensazione ma vedevo in te qualcosa di diverso, il tuo mondo sembrava diverso dal mio.
Qualche anno più tardi giocavamo insieme, tutti ti volevano in squadra perché con te la vittoria era assicurata ed in certi momenti ci sentivamo uniti. Col passare del tempo però, la differenza tra essere e avere, iniziò anche a marcare la differenza tra noi. Mio padre mi insegnava, non senza qualche mio disappunto, che l’importante nella vita non consiste in ciò che hai ma in ciò che sei. Tuo padre, ti insegnava esattamente l’opposto: “l’unica cosa che conta nella vita non è certamente l’essere, e nemmeno l’avere ma, assolutamente l’avere più di tutti gli altri”.
Nella vita conta solo chi arriva primo, ti ripeteva, tutti gli altri sono feccia. Io ho sempre pensato che c’è un posto per ogni anima e che quel posto non potrà mai togliertelo nessuno. Erano gli anni anche dei primi perché sulla vita, sulla religione, come è possibile che l’unica e sola vera fede sia la nostra e tutti coloro nati in un tempo e in un luogo diversi, che non hanno conosciuto il mio dio, siano nell’errore? Tu risolvevi questi problemi semplicemente non ponendoti queste domande e quando eri costretto a portele, ricordavi gli insegnamenti di tuo padre: “di’ alla gente ciò che vuol sentirsi dire e poi fa come ti pare”.
Quando dovevamo portare i soldi per la gita, mio padre mi dava i soldi contati con una discrezione ed un pudore che non capivo. Tuo padre, pur sapendo benissimo quale fosse la cifra dovuta, arrivava fingendo di non saperlo, tirando fuori una manciata di banconote di grosso taglio dalla tasca dei pantaloni in modo che tutti potessero vederle bene. Quando mio padre mi comprava qualcosa si sincerava di quale fosse la cosa più utile per me, tuo padre, si sincerava di quale fosse la più costosa, perché “mio figlio deve avere il meglio” (tradotto in italiano: ciò che costa di più).
Ricordo benissimo le ansie per le mie prestazioni scolastiche, i compiti da fare ecc. e ricordo altrettanto bene che la scuola non era neppure nei tuoi più lontani pensieri. Sostanzialmente te ne fottevi alla grande, e poi, per risolvere qualche problemino, ci pensava tuo padre con qualche cassetta di pesce pregiato indirizzata alla persona giusta. Si, ricordo che negli anni settanta, nella nostra città, le cose funzionavano più o meno così. Le tue uniche preoccupazioni restavano le ragazze, ma soprattutto i soldi.
E ti ricordi la scuolaguida? Eravamo nello stesso corso, tu entravi sempre ben vestito (almeno secondo i tuoi gusti), dicendo: “ehi, ciao morti di fame”, mascherando la tua spocchia col solito sorriso simpatico. Quando l’istruttore ci spiegò quali tipi di veicoli avremmo potuto guidare con la nostra patente e quali invece no, tu alzasti la mano e chiedesti all’istruttore: “mi scusi, ma io posso guidare il BMW di mio padre?” L’istruttore rispose di no, allora tu prendesti le tue cose e andasti via senza neanche salutare.
Ma poi come hai fatto a prendere la patente? Quello fu il periodo in cui ci perdemmo di vista per alcuni anni prima dell’incontro in aeroporto. Infatti passarono credo quattro o cinque anni, quando, al ritorno da un viaggio, per un grottesco disguido mi ritrovai all’aeroporto senza un passaggio per tornare a casa. Tu eri venuto a lasciare tua sorella, se non ricordo male, e così tornammo insieme. Forse, senza quell’episodio della scuolaguida, non mi avrebbe fatto impressione l’enorme Mercedes argentata con le quattro frecce lampeggianti parcheggiata in doppia fila.
Prendesti il foglio del verbale dal tergicristallo, lo accartocciasti col tuo solito sorriso simpatico e lo gettasti per terra. Durante tutto il viaggio non facevi altro che parlare del tuo lavoro con tuo padre, dei soldi che guadagnavi, delle più belle ragazze che facevano la fila per venire a letto con te, delle automobili che avevi cambiato, e naturalmente dei locali esclusivi che frequentavi, dove i pezzenti non erano ammessi. Mi chiedo se allora mi annoverassi tra questa categoria e, in tal caso, perché venissi a raccontare queste cose proprio a me.
Comunque adesso ti posso confessare che durante tutto quel viaggio rimasi in silenzio solo perché ero irritato dal tuo modo di guidare. Malgrado la media dei 180 kmh, quell’autostrada mi parve interminabile. Non appena individuavi qualcuno davanti a noi, già a 15 km di distanza iniziavi a lampeggiare con gli abbaglianti perché gli fosse chiaro che la strada era tua per diritto divino. Se poi uno osava effettuare un sorpasso davanti a te, oltre a lampeggiare come l’insegna di un night club, non toccavi freno fino ad arrivare alla distanza di sicurezza citata dal manuale di guida comparato Mercedes, Audi, BMW in Italia, ovvero sette millimetri da paraurti a paraurti.
Senza contare gli improperi verso il malcapitato che aveva osato occupare la corsia di sorpasso nello stesso giorno in cui stavi passando tu. Dai discorsi che facevi e dal modo in cui “indossavi” la tua automobile, sembrava proprio che questa fosse un’estensione del tuo pene, non un simbolo di virilità, ma la tua virilità stessa. Da allora sono passati tanti anni. L’ultima volta che ci siamo visti, se non ricordo male, ci siamo incontrati per strada, io ero da solo, tu con tua moglie e mi hai invitato a venire a cena con voi in un ristorante che aveva appena aperto e che andava tanto di moda.
Ricordo la confusione, la gente maltrattata, la fila in piedi ad aspettare il proprio turno per entrare e tu, col tuo solito sorriso simpatico hai scavalcato la fila chiedendo del proprietario. Questi si precipitò da te con un’aria così servile da fare schifo e in un istante trovò il tavolo, sottraendolo ad una coppia che era arrivata chiaramente prima di noi, giustificandosi dicendo che era già prenotato. Mi sono imbarazzato perché leggevo nei loro sguardi la consapevolezza della menzogna e la rassegnazione per questo stato di cose.
Abbiamo cenato veramente male. Cibo approssimativo, pessimo vino e servizio scadente. Eppure, il tuo sorriso era smagliante, sembravi felice e soddisfatto. Ti voltavi verso la gente che ancora aspettava in piedi con uno sguardo tra lo “scusate ma io so io e voi non siete un cazzo” e il “c’è chi può e chi non può, io può”. Quando hai chiesto il conto, il proprietario si precipitò al nostro tavolo per chiederti come ti fossi trovato. Capisci? Eravamo in tre, in tre! Eppure, lui chiese solo a te, con la voce tremula come se dal tuo giudizio dipendesse non solo il futuro del suo locale, ma persino la sua stessa vita e quella delle sue future generazioni.
Me ne andai indignato e disgustato ma l’immagine che ho ancora in mente è quella del tuo sorriso ormai spento, opaco, sporco. Un sorriso finto al quale anche tu, ormai, non credevi più. Adesso so che ti sei messo in politica e che hai anche delle responsabilità importanti. Naturalmente fai parte di quel partito, non poteva essere altrimenti: “di’ alla gente ciò vuole sentirsi dire e poi fa come ti pare”, proprio come diceva tuo padre. “Ungi” bene il sistema, perché è così che funziona! Chi urla alla corruzione è soltanto un nemico del progresso, dell’economia.
Non ti preoccupare di loro, saranno sempre in minoranza, perché quello che la gente vuole è solamente un’automobile più costosa di quella dei loro amici, una piscina più grande di quella dei loro vicini di casa, una barca più lunga di quella dei loro colleghi. Perciò non preoccuparti di giudici, giornalisti, avversari politici, la gente è, e sarà sempre dalla tua parte. Certo, non tutti se lo possono permettere ma l’importante è che nessuno glielo vieti a prescindere e che ci sia sempre qualcuno che li illuda che tutto ciò sia possibile.
A proposito mi permetto di ricordarti la folla di disperati incollati ai monitor del “superenalotto” con le tasche stracolme di “gratta e vinci” e le buste della spesa vuote. Ogni volta che vado a comprare le sigarette, nel vedere questa umanità rovinata dal miraggio della ricchezza facile, mi si lacera il cuore. Lo so cosa pensi, me lo hai detto tante volte: “nella vita conta solo chi arriva primo, tutto il resto è feccia”, così diceva tuo padre. Questi disperati sono gli scarti deboli della società, è normale che facciano questa fine, è una legge di natura, nessuna pietà! Ma perdonami, forse, mi sono dilungato troppo.
Ho deciso di scriverti sostanzialmente per due motivi. Ora che siamo arrivati alla nostra età, e che abbiamo capito molte più cose rispetto a quando eravamo ragazzi, voglio dirti in modo chiaro e diretto che il vostro “lavoro” ha provocato in settant’anni dei danni gravissimi alla nostra città. Questa attività “predatoria” ha provocato non solo enormi danni al patrimonio ambientale ma forse danni ancor più gravi sul tessuto sociale e culturale. Certo, per una trentina d’anni l’economia ha girato alla grande, seguendo il principio dell’arraffa l’arraffabile, senza costruire niente per il futuro.
E adesso che la nostra città è in ginocchio, adesso che su ogni porta c’è un “VENDESI”, adesso che la giostra è finita, tu scappi col tuo paracadute personale della politica. Purtroppo, vedi, la nostra è una realtà alquanto ingenua, non abbiamo mai spiccato per furbizia e le responsabilità sono piuttosto facili da individuare perché non avete fatto nulla per nasconderle. E adesso vengo al secondo motivo di questa mia lettera. Ti scrivo perché, ciononostante, ti ricordo con affetto, quando ci si conosce da bambini, qualcosa di innocente rimane in fondo all’anima, da qualche parte. Tu SEI il tuo sorriso, anche se col passare degli anni si è fatto sempre più finto ed amaro, nei miei ricordi, tu rimarrai sempre il simpatico.
Solo una volta ho visto spegnersi il tuo sorriso, quella volta in spiaggia quando i tuoi compagni ti hanno abbandonato per un attimo per venire ad ammirare il mio castello di sabbia. Oggi comprendo il tuo terrore, avevi capito che io possedevo un talento e che non avevo bisogno di nessuno per esprimerlo. Tu invece non hai alcun talento, e non saresti mai stato nulla senza il tuo circondario di lacchè. L’invidia che provi, verso coloro che “sono”, la nascondi di giorno e di notte con rancore dietro una maschera di scherno, e tutta la tua vita l’hai spesa unicamente nel cercare di suscitare negli altri la stessa livida invidia nei tuoi confronti.
Tuttavia ti scrivo per chiederti scusa. Perdonami se per una frazione di secondo ti ho rubato la scena e ho cancellato dal tuo volto il tuo bel sorriso. Penso che cancellare il sorriso dal volto di qualcuno, soprattutto quando è ancora acerbo, sia una colpa imperdonabile. Con affetto sincero Il tuo amico d’infanzia La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna. Per contatti, suggerimenti, articoli e altro scrivete a: amicidipenna2020@gmail.com