"Teatro amore mio", "L'uomo dal fiore in bocca" di Luigi Pirandello

Redazione Prima Pagina Mazara

È un «dialogo» in un atto, derivato con poche varianti, dalla novella “Caffè notturno” (1918), successivamente intitolata “La morte addosso” (1923). 

Fu rappresentato a Roma dal Teatro degli Indipendenti diretto da Anton Giulio Bragaglia, il 21 febbraio 1923 Il dialogo si svolge in un bar notturno tra un uomo condannato a morte per un epitelioma («il fiore in bocca») e un «pacifico avventore» che ha perduto il treno; e cioè tra uno che vive intensamente il poco tempo concessogli e uno che è ricco di ore da trascorrere oziosamente, in attesa del treno del mattino ed è tutto preso dal banale contrattempo. 

L’eccezionalità del momento, per chi sente la morte addosso – per usare un’espressione pirandelliana – e la normalità per chi è preso nel giro usuale della vita con i suoi piccoli impegni quotidiani, segnano i due termini della dialettica che sì anima nel grande soliloquio del protagonista.

Egli analizza lucidamente le sue ultime sensazioni, evocando brandelli di vita comune, particolari di una quotidianità che per lui s’allontana irrimediabilmente e per questo rende preziosi i ricordi anche di fatti di poco conto. 

Nella solennità della sua solitudine sembra aver raggiunto inattese consapevolezze sulla vita che gli sfugge e sulla morte, senza rimpianti e senza pentimenti, quasi godendo amaramente della sua irripetibile esperienza segnata dall’eco della fine, che gli consente di dedicarsi con interesse a osservare l’anonima vita degli altri, per coglierne il senso. 

L’atto unico, benché sia una letterale trasposizione scenica della novella, risulta artisticamente molto superiore a essa. La suggestione dell’atmosfera notturna, resa visivamente, la presenza fisica di un interlocutore che quasi non parla ma che con il suo «pacifico» atteggiamento fa da contrappunto all’estrema tensione del protagonista, la misura poetica del soliloquio scandito dall’attore, che sembra scritto proprio per essere recitato come un’ode sommessa alla vita che sfugge, hanno contribuito al salto di qualità che ha reso "L’uomo dal fiore in bocca" un capolavoro del teatro pirandelliano. 

Il dialogo iniziale tra “L’uomo dal fiore e L’avventore” esprime tutta la noia della chiacchiera quotidiana in una Italia che si ritrae inorridita e disorientata dalle virtù borghesi che ha appena iniziato ad assaporare.

L’uomo dal fiore cova in sé più di un epitelioma: potremmo dire banalmente che esso è simbolo del mal di vivere ma il modo in cui Pirandello ritrae il malessere attraverso il carattere italiano ha qualcosa di strabiliante e persino profetico. 

«Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla».

Oggi tra le cause di tale angoscia forse metteremmo al primo posto la visione ossessiva dei telegiornali, che sottomettono psicologicamente lo spettatore con una sequela di omicidi, rapine e stupri. 

L’uomo dal fiore sembra addirittura precorrere i tempi nell’accenno alla possibilità di un omicidio tanto insensato quanto attraente per i cronisti di nera. 

Parla della donna, della sua ombra. 

«Mi fa una stizza, che lei non può credere. Le salto addosso, certe volte, le grido in faccia: – Stupida! – scrollandola. Si piglia tutto. Resta li a guardarmi con certi occhi… con certi occhi che, le giuro, mi fan venire qua alle dita una selvaggia voglia di strozzarla. Niente. Aspetta che mi allontani per rimettersi a seguirmi a distanza».

In un passaggio successivo, L’uomo dal fiore diventa ancora più esplicito e riesce forse a dare un senso delle stragi quotidiane alle quali ormai assistiamo impotenti e increduli:«Ho bisogno – questa la battuta quasi finale del monologo - di starmene dietro le vetrine delle botteghe, io, ad ammirare la bravura dei giovani di negozio. Perché, lei capisce, se mi si fa un momento di vuoto dentro… lei lo capisce, posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco… cavare la rivoltella e ammazzare uno che come lei, per disgrazia, abbia perduto il treno…».

Il momento più coinvolgente è quando L’uomo dal fiore rivela la propria malattia all’interlocutore: si intuisce che se Pirandello fosse sopravvissuto quel tanto da vedere l’Italia del dopoguerra, l’avrebbe sbeffeggiata con gli stessi toni da commesso viaggiatore usati dal protagonista per confessare il proprio male.

A Mazara l’opera è stata rappresentata un paio di volte tra gli anni ’80 e ’90, dal sottoscritto e dal compianto Pietro Adelendi. 

Alla rappresentazione c’era un seguito con una altro atto unico: La patente o Bellavita.

Salvatore Giacalone