"Gaza alla fame e alla sete. E’ anche il nostro assedio". La riflessione della giornalista e scrittrice Paola Caridi

Redazione Prima Pagina Mazara

Il 9 maggio è la Giornata dell'Europa, ma è anche l'ultimo giorno di Gaza. Perché il tempo sta finendo e senza il mondo Gaza muore. "Ultimo giorno di Gaza" è questo l'appello lanciato da un gruppo di intellettuali italiani: Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari. Gli hashtag #ultimogiornodigaza e #gazalastday da utilizzare per inondare proprio il 9 maggio i social, e non solo, per denunciare le responsabilità non solo del governo Netanyahu, ma anche dei governi europei e occidentali.

L'appello è stato condiviso e promosso anche dal Liceo Scientifico “Benedetto Croce” ove si legge in un post: "Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi, italiani, europei, umani. Per rompere il silenzio colpevole useremo la rete, che è il solo mezzo attraverso cui possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza. Perché possano partecipare tutte e tutti, anche solo per pochi minuti. Anche chi è prigioniero della sua casa, e della sua condizione: come i palestinesi, i palestinesi di Gaza lo sono.

Perché almeno stavolta nessuna autorità e nessun commentatore allineato possa inventarsi violenze che occultino la violenza: quella fatta a Gaza...".

La nostra redazione ha contattato la giornalista e scrittrice Paola Caridi (nata a Roma nel 1961, è socia fondatrice e presidente dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22 . Laurea in Lettere, in storia dei partiti politici, ha un dottorato di ricerca in storia delle relazioni internazionali. Si è specializzata su Germania, Europa centro-orientale e Balcani. Da oltre venti anni si occupa di Medio Oriente e Nord Africa, in particolare di islam politico in Palestina ed Egitto. Corrispondente a New York per al-Araby al-Jadeed e co-direttrice di Jadaliyya; frequenti i suoi interventi nella trasmissione "Linea Notte" in onda su Rai3). Paola Caridi qualche giorno fa nel suo blog "Invisible Arabs" ha scritto sul tema ha scritto una riflessione molto interessante dal titolo "Gaza alla fame e alla sete. E’ anche il nostro assedio" (in copertina foto dallo stesso blog "Invisible Arabs"). Ecco quanto si legge:

“È in effetti il venerdì 22 sha‘bān dell’anno 492 dell’ègira, il 15 luglio 1099, che i franchi hanno conquistato la Città Santa dopo un assedio di quaranta giorni. Gli esiliati tremano ancora ogni volta che ne parlano, e il loro sguardo si fissa, come se essi vedessero ancora dinanzi ai loro occhi questi guerrieri biondi rivestiti di armatura riversarsi nelle vie, a spada sguainata, sgozzando uomini, donne e bambini, saccheggiando case e moschee.

Cessato il massacro, due giorni più tardi, non è rimasto un solo musulmano tra le mura della città. Alcuni, approfittando della confusione, sono fuggiti attraverso le porte che gli assalitori hanno sfondato. Gli altri giacciono a migliaia in pozze di sangue sulla soglia delle proprie case o nelle vicinanze delle moschee. Tra loro una gran folla di imām, dottori musulmani e asceti sufi che avevano lasciato il loro paese per venire a vivere un pio ritiro in questo luogo santo. Gli ultimi sopravvissuti sono costretti a svolgere il più penoso dei compiti: portare sulla schiena il cadavere dei propri congiunti, ammucchiarli sui terreni incolti senza dar loro sepoltura e bruciarli prima di essere a loro volta massacrati o venduti come schiavi.”

Sì, eravamo proprio noi, quelli con la croce e la spada. I crociati sulle cui nefandezze si è costruita un pezzo di storia europea. Occorre sempre stravolgere il nostro sguardo assuefatto al modo di raccontarla, la “Storia” umana, per riuscire a vedere con gli occhi dell’Altro. Ci aiuta, in questo caso, Amin Maalouf. Uno dei più importanti, famosi, citati intellettuali libanesi e arabi. La descrizione della caduta nel 1099 di Gerusalemme nelle mani dei franchi, dopo un assedio feroce, è in un testo che ha oltre quarant’anni. Il meno citato, eppure il più importante, soprattutto oggi. Le crociate viste dagli arabi (ripubblicato in Italia recentemente da Nave di Teseo)

Sono passati mille anni, quasi, dalla caduta di Gerusalemme e dal periodo tremendo in cui, a essere prese di mira, erano proprio le città. Le città fortificate: Acri, Tripoli, Sidone, Aleppo, e Gaza. In un elenco quasi infinito della realtà urbana della regione, tutto il contrario del nostro perenne e permanente stereotipo: tende e poco altro. No, erano città, e città fiorenti. Sono passati mille anni, e siamo di nuovo noi. E di nuovo lì, sull’altra costa del nostro comune Mediterraneo. Mare di tutti.

Noi europei, alleati di chi sta compiendo un genocidio a Gaza: il governo israeliano ha dato mandato alle sue forze armate di compierlo, il genocidio. E fa impressione quanto le pratiche belliche, crudeli e senza pietà, di quasi mille anni fa siano riproposte in chiave 2.0, aiutate dalle tecnologie avanzate, dai droni guidati dall’intelligenza artificiale. Eppure, allo stesso tempo, siano rimaste ferme, lì, a un millennio fa. Alla fame e alla sete. All’assedio di stampo medievale. Sotto un assedio ben più lungo dell’assedio di 40 giorni nel 1099, in cui era stata tenuta Gerusalemme, è Gaza – la Striscia di Gaza, 365 chilometri quadrati di città e cittadine che si estendono da nord a sud senza soluzione di continuità.

Sotto assedio soft – per modo di dire – da decenni, e poi in modo sempre più stringente dal 2007 al 2023. E infine dopo il 7 ottobre 2023, ancor più sigillata. Un catino che non ha, come mille anni fa, mura possenti, mura-fortezza entro le quali rifugiarsi. Ha al contrario, costruite dagli assedianti, muri e recinzioni, e ammassi di terra, e checkpoint e strade militarizzate.

Sotto assedio. Da terra. E dal cielo, con il rumore incessante dei droni che farebbe impazzire chiunque, e fa impazzire i palestinesi da anni e anni.

Sotto assedio, soprattutto nel modo più crudele, subdolo, senza sangue. Igienizzato. L’assedio della fame e della sete. L’assedio in una cella di 365 chilometri quadrati in cui il carceriere (Israele) non fa entrare una goccia d’acqua. Né riso, o farina. Niente. Nulla. Da due mesi esatti, dal 2 marzo, quando – formalmente – era ancora in vigore l’accordo complessivo di cessate il fuoco concordato alla presenza dei mediatori, Qatar, Egitto, Stati Uniti (Europa assente, anzi, totalmente esclusa).

Da due mesi esatti due milioni di persone – circa, il numero non è certo, visto il massacro in corso da un anno e mezzo – non hanno di che mangiare. Cominciano a morire di fame, per carestia indotta da Israele, mentre migliaia di camion, tir, autoarticolati giacciono sotto il sole, già forte, alle spalle dei valichi, in attesa che il carceriere (Israele) apra i cancelli.

Ho l’impressione che in Italia non si riesca a immaginare lo spazio in cui tutto questo si svolge. Non si riesca, cioè, a ricreare il modellino, il rendering dello spazio fisico e geografico di Gaza. Altrimenti non riusciremmo a sopportare un giorno di più l’enormità morale che ci sta schiacciando. Non si vedono neanche le immagini – da inferno dantesco – delle grandi, medie, piccole pentole di risulta, quelle che i palestinesi di Gaza sono riusciti a portarsi nel loro viaggio perenne dentro questo formicaio sigillato.

Le pentole luccicano, colpite dai raggi del sole, nelle foto che riprendono dall’alto la folla che si accalca attorno alle cucine comuni, messe su dalle organizzazioni umanitarie, le ong, le piccole associazioni che ancora sono lì. Gli eroi e le eroine che ci salveranno da un suicidio collettivo in corso. Ci salveranno anche con il loro sacrificio, perché quelle cucine, e i magazzini di stoccaggio dei viveri e dell’acqua e dei medicinali sono stati presi di mira e colpiti dall’aviazione israeliana. Le pentole luccicano, sollevate da mani adulte e dalle manine dei bambini, in attesa che un grande mestolo le riempia, o solo le tocchi. Mentre nelle tende, tra le macerie, la morte silenziosa e invisibile per fame non fa – appunto – rumore. Il rumore, invece, dovrebbe farlo anche dentro i noi. E costringerci a dire: “oddio, oppure O Dio, cos’ho fatto? Dov’ero?”