Ultime della sera: “Musica è”
Il primo programma che mi affidarono in radio si chiamava “Un ellepì al giorno”. Che se lo racconti oggi devi stare un quarto d’ora a spiegare ai millennials cos’era un Long Playing, di cui LP è l’acronimo. Allora il rapporto con la musica non era molto diverso da quello con la letteratura: non solo perché i testi erano importanti, vuoi che si seguissero i “cantautori”, termine orrendo con cui si indicavano gli autori che trovavano il coraggio di esibirsi in proprio, anche se a dispetto di una carenza di voce al limite dell’afonia o di una perizia nel suonare lo strumento non superiore alla riproduzione di un paio di accordi, sia che ti appassionassi alle grandi rock band dell’epoca, che accompagnavano la loro musica con incredibili testi, spesso chilometrici, veri e propri capolavori che si riuscivano, complice la giovane età, a mandare a memoria nonostante l’inglese forbito con cui erano vergati; anni dopo, dovendomi esprimere in inglese per lavoro, feci un figurone solo perché me ne uscii, del tutto spontaneamente, con una frase tratta di sana pianta da non so più quale pezzo dei Genesis.
Gli ellepì, che giravano a 33 giri, raccoglievano più brani, di solito uniti da un filo conduttore, contrapponendosi al 45 giri, che ne conteneva solo due, di cui uno principale, l’altro relegato sul lato B, a meri fini di umile riempitivo. Naturalmente ci furono anche dei “Lato B” che riscossero successi maggiori dei lato A; il primo che mi viene in mente fu “Lugano addio” di Ivan Graziani, struggente brano melodico, mentre dall’altro lato ci stava “I lupi”, anonima canzone ritmata che nessuno ricorda, anche se Graziani preferiva passare per rocchettaro…ma sulle rivincite dei lato B, così come sul fatto che questa espressione oggi rimanda, invece, a Belen Rodriguez o Jennifer Lopez si potrebbe scrive un pezzo a parte.
Ma il piccolo 45 giri era solo “carne da macello” per feste e scampagnate; soggetti a torture terribili, come il “mangiadischi”, un dispositivo portatile, o l’alimentazione automatica dei giradischi; ed, a fine festa, il conteggio dei dischi non tornava mai, dovendosi registrare diversi caduti in battaglia. Ben diverso il rapporto sacrale che si instaurava tra il long playing ed il suo proprietario che, ben presto, cominciarono a chiamarsi “album” perché contenuti non più in buste singole, ma doppie, che si aprivano a libro, con copertine che, nel frattempo, diventavano bellissime, mostrando soluzioni grafiche originalissime che, da stramberie pop di rottura dei cliché artistici dell’epoca assursero, ben presto, in numerosi casi, a capolavori assoluti, come geni indiscussi furono riconosciuti gli artisti che le crearono: solo Andy Warhol ne firmò una sessantina, una anche per la nostra Loredana Bertè.
Esistevano anche album doppi, di solito quelli live, ma anche tripli o più; aprendoli, in ogni caso, si trovavano i testi, e questo rese naturale custodire gli album come fossero dei libri, sugli stessi scaffali, ed ogni tanto aprirli e sfogliarli, anche se non avevi il tempo di metterlo sul piatto: perché allora i dischi si suonavano sul piatto, come veniva professionalmente definito il dispositivo gira dischi con braccio e puntina, che veniva manovrato manualmente. Tutto questo finì all’inizio degli anni ’80, quando fu introdotto il CD a lettura laser.
La novità portò diverse comodità, a partire dal rimpicciolimento dei dispositivi di riproduzione, nonché degli stessi supporti, che consentì, fra l’altro, la possibilità di ascoltarli in auto; un vantaggio non da poco. Secondo gli esperti, tuttavia, qualcosa si sacrificò alla qualità del suono, motivo per cui il vinile non solo non scomparve mai completamente dalla circolazione, ma oggi è clamorosamente ritornato come fenomeno di tendenza, con tutti gli annessi e connessi, ossia gli ingombranti impianti stereo dell’epoca, piatto, amplificatore e casse, allora veri e propri status symbols, che a qualcuno piace nuovamente ostentare.
Ma ciò che veramente è tornato è il piacere di maneggiare, il disco, di estrarlo dalla busta, di soffermarsi sui testi stampati sulla stessa, di indugiare a rimirare il disegno o la foto artistica della copertina esterna ed interna: l’album era un condensato di arte musicale, letteraria e grafica; a volte apprezzabile, altre meno, si capisce. E poi sentire il crack della puntina di diamante che impatta sui solchi, l’attesa del suono, ma anche la voglia di cambiare brano, ed allora il dover sollevare manualmente la puntina, contare gli intervalli fino al brano prescelto e riabbassarla.
Non sembri banale, questa manualità: negli ultimi tempi si evolse in una forma d’arte denominata scratching: i dee-jay cominciarono a manovrare i piatti manualmente, avanti ed indietro, all’inizio di un brano o nel bel mezzo, per creare effetti particolari o proporre ‘missaggi’ originali tra un pezzo e l’altro. Ne scaturirono nuove forme di espressioni musicali, prima in ambito hip -hop poi in altri; Che non erano propriamente i miei, ma che non per questo sono da disprezzare, infatti sono ancora in auge.
Ma noi adoperavamo questa tecnica, quale rudimentale replay, solo per capire una parola che ci era sfuggita nel caso non si disponesse del testo scritto. A pensarci bene, quel programma che mi affidarono non era affatto male: poter presentare un album, soffermandosi su ogni suo aspetto, anche sulla copertina, inserirlo nella storia della band, nel rapporto con la produzione precedente e successiva, analizzarne il fil rouge tra i diversi brani, quando presente, per un diciassettenne erano comunque soddisfazioni.
Ad un mio amico, in fondo, era andata peggio: gli affibbiarono il programma revival; ricordo che la sigla era “Fly Robin fly”, un pezzo da disco-music di appena 2 anni prima, che a noi sembrava un’era geologica, il che giustificava il suo uso per un programma ‘revival’. In realtà si trattava di passare musica da balera, lisci e musica napoletana, oggi diremmo neo-melodica. Ma l’amico, ancora oggi una delle massime autorità che io conosca in tema di hard rock e dell’allora agli esordi punk music, non si perse d’animo: affrontò il microfono emulando Lone Wolf, il mitico dee jay di “American Graffiti”, pronunciando orchestra con l’accento sulla “o” anche se doveva passare una mazurka dell’orchestra Casadei..all’inglese, manco fosse la Love Unlimited o la Electric light orchestra.
Prima o poi sarebbe stato “promosso”, e lui lo sapeva; intanto si prendeva quel che veniva, senza fiatare. Lui adesso vive ad Atlantide, con cui io definisco, con licenza di Francesco de Gregori, qualunque luogo che non sia Mazara ove sia finito chiunque abbia condiviso la giovinezza in città; ma prima fondò una rock band e so che ancora si esibisce quando può: del resto lo fanno pure i Rolling Stones, che sono molto più anziani. Lo invidio da morire, perché musica è questo, mentre io non ho mai imparato a suonare uno strumento…forse è per questo che sono rimasto così attaccato al disco in vinile; era sempre qualcosa su cui mettere le mani.
Prendendolo rigorosamente dal bordo, guai a stamparci i polpastrelli sui bordi…roba da romperci un’amicizia risalente ai tempi dell’asilo! Danilo Marino