Ultime della sera: “Panormomastica”

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
30 Luglio 2020 18:36
Ultime della sera: “Panormomastica”

Chi era il marchese Ugo?  E che sarà mai Giachery?  Un personaggio o chissà quale entità, la cui influenza sulle sorti della città di Palermo di certo si registrò, ma chissà mai se superiore od inferiore all’omonima stazione di quella che si vorrebbe spacciare come di una metropolitana, quando invece è per un semplice treno, l’ennesimo, che percorre Palermo sottoterra? Sì lo so, di sicuro qualcuno lo avrà già detto da qualche parte: lo studio della toponomastica di una città è uno strumento formidabile per approfondirne la storia: ma quella di Palermo è incredibile, schizofrenica, paradossale, e non solo perché vede arterie o piazze importanti intitolate a perfetti sconosciuti, essendo le sue vie principali intitolate a nomi di fantasia, come viale della Libertà, o risalenti al lungo dominio spagnolo E meno male che la via Toledo, di emulazione partenopea, venne trasformata in corso Vittorio Emanuele a seguito dell’Unità, come si fece in qualunque paesino, come del resto sarebbe anche Maqueda, con cui si nomina l’altro asse storico cittadino: meno di 500 abitanti in Ispagna, nella provincia di Toledo.

Ma Toledo, almeno, di Spagna fu capitale, e questo può spiegare come mai la via principale della vecchia Palermo gli fu intitolato; per  Maqueda, invece, bisogna tirare in ballo l’omonimo ducato, che fu  quello del vicerè Bernardino de Cardenas, che, agli inizi del ‘600, promosse il taglio dell’omonima strada, ortogonale a quella che, dalla Cala, già penetrava in direzione di Monreale; si ricavarono, così, anche i 4 canti all’incrocio. Sistemata la vecchia Palermo, veniamo a quella moderna,  che, secondo me,  quanto a toponomastica, suscita anche maggior interesse,  in me solleticato anche dal bel romanzo storico di Stefania Auci ‘I leoni di Sicilia’ sulla saga dei Florio, che non hanno certamente bisogno di presentazioni, e che saranno protagonisti anche di queste brevi righe.

Carlo Giachery, per esempio, fu l’architetto di fiducia di Vincenzo Florio, figlio di Pietro e nipote di Ignazio, che, da Bagnara Calabra mossero a Palermo per fare fortuna nel 1799; Vincenzo ereditò una già discreta posizione che gli permise non solo  di porre le basi di quello che fu, per un altro secolo ancora, l’impero dei Florio, ma anche di cominciare a farsi costruire case e residenze una più bella dell’altra, a partire dalla stupenda villa dell’Arenella,  quella dei 4 pinnacoli,  ed altre, tutte dallo stile inconfondibile e sempre molto originali rispetto agli edifici tipici del luogo, come ben sa chiunque le conosca.

Giachery, in sostanza, grazie anche al meccanismo di emulazione che scattò poi tra i ricchi palermitani verso i Florio, fu il primo  protagonista ( seguirono poi Basile ed altri ) del rilancio architettonico di Palermo, culminato nel trionfo del Liberty che ci regalò un viale della Libertà ancora più bello di quel che possiamo ammirare oggi, dopo aver dovuto contare le vittime illustri del ‘sacco di Palermo’ come il villino Deliella di piazza Croci od il palazzo Belmonte in via Crispi.

Oggi però il povero Giachery si trova a dare il nome di uno dei più anonimi piazzali di Palermo, sito all’intersezione delle vie Crispi, dei Cantieri, Duca della Verdura e Sampolo, luogo di transito del traffico pesante diretto al porto ed ai cantieri, assolutamente impercettibile come spazio urbano. Al marchese Pietro Ugo delle Favare, invece, Vincenzo Florio, la cui attività principale era ancora quella di grossista di spezie, si rivolse per ottenere una licenza anche per lo smercio al dettaglio di medicamenti, il che gli guadagnò l’ostilità giurata della corporazione dei farmacisti; ma Florio, essendo un floridissimo commerciante in grado di scontare tratte e cambiali a tutta Palermo, la spuntò, ottenendo dal marchese Ugo, allora luogotenente del Regno, ossia il vicario del sovrano in Palermo,  l’agognato documento.

Luogotenente, avrete notato, e non più viceré; sì, perché, nel frattempo, si era tenuto il congresso di Vienna, a seguito del quale ai Borbone riuscì il colpaccio di rinominare i regni di Napoli e Sicilia in “Regno delle 2 Sicilie”: fu così che ci perdemmo per strada la corona del Regno di Sicilia, sovrana fin dal tempo dei Normanni, ancorché spesso riunita sulla testa di regnanti che, secondo l’uso dell’epoca, ne collezionavano diverse; ad ogni modo, fatto sparire il trono a Palermo, non occorreva più piazzarvi un viceré.

Ma, direte voi, possibile che gli orgogliosissimi siciliani gliela lasciassero passare ai Borboni? Ma certo che no! Ci furono rivolte, e  poi scoppiò un ’48, ( nel vero senso della parola: i moti del 1848, che attraversarono tutta Europa, iniziarono proprio a Palermo, il 12 gennaio 1848, da cui via XII gennaio, traversa di via Libertà), ed alla fine arrivò Garibaldi; ma questa è un’altra storia, su cui torneremo brevemente. Oggi nessuno si ricorda più del Luogotenente Ugo e del suo potere, ma, quantomeno, via marchese Ugo  consente ora di risalire, in auto, il senso unico della parallela via Libertà, da piazza Croci a largo abeti e di sboccare in via Notarbartolo: e se questo non è un potere per un automobilista panormita non so cosa sia! Siamo così giunti ad Emanuele Notarbartolo, sindaco di Palermo dopo l’Unità nonché direttore del Banco di Sicilia, figura integerrima di grande scrupolo e rigore morale, applicati soprattutto nel vigilare sull’attività di quell’istituto di credito; mal gliene incolse, purtroppo, avendo scoperto che il Banco erogava crediti secondo criteri un po’, come dire, soggettivi, privilegiando la posizione sociale del debitore rispetto alla sua solidità patrimoniale ( come dite? Vi ricorda qualcosa? Ma certo che vi ricorda qualcosa, ma se iniziamo con i riferimenti non la finiamo più!).

Per farla breve, Notarbartolo fu rimosso dalla direzione del Banco da Francesco Crispi, presidente del Consiglio e garibaldino della prima ora; anche Notarbartolo, invero, lo era stato, avendo partecipato pure alla battaglia di Milazzo; come pure lo era Giulio Benso, che non credo fosse parente dell’omonimo Conte di Cavour, ma si fregiava, di sicuro, del titolo di Duca della Verdura…che poi, con questi appellativi: per il vicerè De Cardenas, “di Maqueda”, villaggio sperduto della Mancia, per il duca Giulio Benso addirittura “della Verdura” , chi mai crederebbe che il titolo di duca segue immediatamente, in importanza, quello di principe? Ma sto divagando.

Tornando a noi fu proprio il Duca della Verdura a succedere a Notarbartolo ( che, rimosso dall’incarico, dovette pure fare causa per la pensione ); questo passaggio di consegne sembrerebbe oggi regolarmente rappresentato dal fatto che  via Notarbartolo, dopo l’incrocio con viale della Libertà, prosegue mutando il nome in via Duca della Verdura: potrebbe quindi dirsi soddisfatto il cultore di storia panormita? Manco per niente, direi, perché il Duca della Verdura nulla aveva del rigore del suo predecessore, tanto da lanciarsi in disinvolte operazioni di rastrellamento, per aumentarne il valore, di azioni della Navigazione Generale Italiana, di cui era pure consigliere d’amministrazione, azioni sotto il controllo di Ignazio Florio jr.

(figlio del figlio di Vincenzo: Ignazio senior ) ed altri maggiorenti palermitani, tra cui l’onorevole Raffele Palizzolo, sodale di Crispi ed esponente del locale sistema di potere che vi faceva diretto riferimento. Ma, allora come oggi, un Presidente del Consiglio non durava tantissimo:  Crispi  durò 4 anni, ma gli successe,  dopo l’intermezzo del marchese di Rudinì,  Giovanni Giolitti, con uno dei suoi tanti gabinetti, deciso a smantellare il potere crispino; ed accadde che Giolitti annunciò di “voler rimettere a posto le cose” avendo fatto delle” importanti scoperte” a Palermo; questo annunciò gettò nel panico Palizzolo & C., convinti che Notarbartolo sarebbe stato rimesso al vertice del Banco di Sicilia per svelare i loro maneggi.

Come fu, come non fu, Emanuele Notarbartolo fu ucciso a coltellate il 1° Febbraio 1893 sul treno, tra Termini Imerese ed Altavilla Milicia; dell’omicidio furono accusati l’on.le Palizzolo e due sicari della cosca di Villabate, che furono condannati, in primo grado a 30 anni; ma la Cassazione annullò il verdetto con rinvio ed il nuovo processo si concluse con un’assoluzione per insufficienza di prove. Palizzolo tornò a Palermo da vincitore e quel processo passò alla storia, più che altro, per la testimonianza di Ignazio Florio jr.

che si accalorò a ripetere che ‘la maffia ( allora con due ‘f’) non esiste’, mentre, dal canto suo,  Ignazio Florio jr. passò sì alla storia come protagonista ed animatore indiscusso della Belle époque palermitana, la più fulgida stagione vissuta dalla città dai tempi di Federico II di Svevia, ma anche , molto poco onorevolmente, per aver avviato il tracollo della sua dinastia. E se di Federico II si sono ricordati solo di recente, essendo la via ‘Imperatore Federico’ sì un’importante arteria, ma alquanto periferica, nulla ricorda oggi Ignazio Florio jr., mentre al padre, il più posato senatore  Ignazio Florio senior, non solo è stata intitolata una piazza, ma vi campeggia pure un suo  bel monumento.

  Quanto al Duca della Verdura, non mi risulta che venne coinvolto nelle indagini sul delitto Notarbartolo; ma mi piacerebbe tanto conoscere il nome di quel genio di toponomastico cui è venuto in mente di accostare in maniera tanto sfacciata, date le vicende narrate, il suo nome a quello di un galantuomo riconosciuto come la prima vittima eccellente di mafia della storia. Genio si fa per dire: detto a scanso di equivoci, dato che, dall’altro lato, via Notarbartolo prosegue in via Leonardo da Vinci.

Danilo Marino   ( N.d.A.) Per chi volesse saperne di più sull’omicidio Notarbartolo segnalo il bell’articolo di Francesco Bruno apparso il 28 ottobre 2018 sul Sole24Ore – e Pasquale Hamel su ilSicilia.it 11.10.2019 – in rete.  

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