Ultime della sera. Noi siamo Enea e il padre Anchise, noi siamo l’Italia

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
21 Marzo 2020 19:31
Ultime della sera. Noi siamo Enea e il padre Anchise, noi siamo l’Italia

"Su, dunque, diletto padre, salimi sul collo, ti sosterrò con le spalle, e il peso non mi sarà grave; dovunque cadranno le sorti, uno e comune sarà il pericolo, una per ambedue la salvezza" (Virgilio, Eneide) Enea che fugge da Troia in fiamme con il vecchio padre Anchise sulle spalle e tenendo per mano il figlio Ascanio, non è solo l'eroe che fugge dalla guerra ma colui che parte per realizzare una profezia: generare un popolo in grado di conquistare il mondo.

Enea non cerca la guerra per far bottino, per conquistarsi la gloria ed esser così ricordato tra le genti. La guerra è per lui una dolorosa necessità impostagli da eventi incontrollabili, una serie infinita di lutti e di ferocie, la negazione di tutti i valori e di tutti gli affetti. La virtù di Enea è la pietas, un sentimento che per i Romani significava devozione religiosa, rispetto della famiglia e degli antenati, accettazione del dovere, capacità di sopportare le avversità, alto senso civico che lo porta ad anteporre al proprio destino individuale la considerazione del bene del'umanità.Ed è su questa pietas, e su questa immagine forte, metafora della paternità, che Virgilio fonda il mito di Roma e dell'Italia. Abbiamo ripensato ad Enea in questi giorni difficili soprattutto per i nostri anziani, che in questo momento risultano essere la parte più fragile della nostra comunità, bersaglio prediletto di un virus che li sta facendo cadere come birilli traballanti. I nostri anziani che muoiono soli, su un letto d'ospedale, sofferenti, a volte intubati, senza una mano familiare che stringa la loro, senza il conforto di una carezza, di un bacio amorevole, di uno sguardo di commiato.

Anziani che vanno via senza una veglia funebre, senza un funerale, portati lontano dalla propria casa per essere cremati in qualche luogo che non gli appartiene, che non ne conosce la storia. Questo virus spietato ci ha tolto quella pietas con cui accompagnavamo i nostri defunti nel momento del passaggio, quei rituali compassionevoli che erano per noi momento di consolazione. Affinchè il distacco con i nostri cari non fosse traumatico, ci consolavamo con i rituali della vestizione, della veglia funebre, dell'abbraccio consolatorio di amici e parenti, dei fiori e dei messaggi di cordoglio che ci arrivavano, delle preghiere e del rosario attorno al feretro, del funerale in chiesa, dei ricordi di chi li aveva conosciuti, dell'accompagnamento al cimitero per la sepoltura. E anche quelli tra loro che resistono, che tengono duro, a che prezzo? Al prezzo di una solitudine senza fine tra le quattro mura domestiche, o isolati nelle case di riposo, senza la visita di figli e nipoti, impauriti all'idea di star male, perchè non esiste solo il coronavirus e c'è il terrore di dover comunque finire in ospedale per qualsiasi motivo, e ritrovarsi soli.

E morire soli. Si era detto, all'inizio, come quasi ad esorcizzare la paura e allontanarla dal nostro orizzonte che “ comunque muoiono gli anziani già malati”, e questa frase aveva il sapore di una sconfitta, ma anche di una maledizione. Perchè gli anziani che muoiono sono i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri zii. Sono quelle persone ancora distinte e piene di dignità nonostante l'età e qualche acciacco che continuano ad aiutarci, moralmente e materialmente, che popolano la nostra quotidianità.

Che hanno formato la nostra identità, costruito i nostri ricordi. E' quella nonna dal sorriso dolce che preparava la torta di mele e le lasagne ai nostri figli, quel signore coi capelli bianchi e il viso solcato dalle rughe e dal sole che accompagnava i nostri bambini al parco o che raccontava loro storie di un'Italia lontana, di guerra, di dopoguerra, che i nostri figli non hanno conosciuto E' lo zio con cui guardavamo la partita di calcio la domenica o il giro d'Italia in certi lenti pomeriggi di maggio, con le tapparelle chiuse che lasciavano filtrare il sole, la scuola che si avvicinava alla chiusura e noi che imparavamo la passione per la bici, e i racconti sulla rivalità tra Coppi e Bartali, tra Saronni e Moser. In Lombardia c'è un intera generazione di ultrasettatenni che sta scomparendo.

E' la memoria che va via, la storia, l'identità che si perde , e in modo traumatico, per tanti figli, per tanti nipoti, per tante famiglie. Che beffa, questo virus! Eravamo la popolazione più longeva del mondo, e ne eravamo cosi fieri! Ogni anno aggiornavamo i dati sull'aspettativa di vita, e questa cresceva sempre più. I motivi erano molteplici: il clima, la dieta mediterranea, la genetica, e quel sistema sanitario che si prendeva cura dei suoi anziani, che non li abbandonava, che li curava gratuitamente, che non lasciava indietro nessuno! Una sanità che qualcuno, negli anni, ha voluto smantellare, e a cui questa epidemia sta dando il colpo di grazia, perchè non più attrezzata per le epidemie, per le catastrofi. E' vero, l'epidemia finirà, il virus sparirà o la scienza con i farmaci o i vaccini imparerà a tenerlo a bada, ma le ferite che ci sta lasciando, quelle, non passeranno mai. Possiamo solo disinfettarle, curarle, e ricominciare, ricostruire, non farci di nuovo trovare impreparati di fronte alle future sfide della natura. Perchè noi siamo Enea che prende sulle spalle Anchise e poi fonda Roma e, come ha ricordato qualcuno, siamo anche Virgilio che quella storia l'ha raccontata, e Gian Lorenzo Bernini che l'ha scolpita per sempre nel marmo, perchè noi i nostri vecchi ce li carichiamo sulle spalle e , anche quando non ci sono più, è su di loro che restiamo seduti, per ricordarci sempre chi siamo e da dove veniamo. Noi siamo l'Italia. Catia Catania

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