Misteridicittà/Quando l’omertà accompagnò Lentini fino alla morte. “Giulio Moneta” a capo di “cosa nostra”.

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
16 Agosto 2015 12:54
Misteridicittà/Quando l’omertà accompagnò Lentini fino alla morte. “Giulio Moneta” a capo di “cosa nostra”.

Sbirciando nei cassetti della storia, la nostra terra ci offre memorie appese al filo silenzioso dell’omertà, che come quello della tela di un ragno si lega a più elementi lasciando intrappolata al suo interno la verità e troppo spesso la giustizia, catturata e trasformata il più delle volte in vendetta.

Quello che ci ha colpito di questa storia è che l’omertà giunge a toccare l’essere nel suo ultimo istante di esistenza. Siamo nel 1963, è il 28 di novembre e nelle pagine dell’Unità (vedi foto n.2) la Sicilia fa vedere due dei suoi aspetti più caratteristici e ombrosi. Sembra quasi ironico l’accostamento di una notizia di un duplice omicidio irrisolto e la cattura di un killer di mafia, sfuggito più volte alle forze dell’ordine palermitane, con il blocco della visita a Palermo della commissione antimafia in seguito a pressioni politiche.

Il confine è sempre stato grigio, risultato di accordi o compromessi tra chi sta nelle trincee dei votanti e chi detiene il potere “ufficiale”. Il palazzo del potere vanta stanze con arredamenti diversi per ospitare i vari personaggi che lo sostengono, i bagli siciliani, gli uffici giudiziari, le celle dei detenuti speciali, quelle con i drappi neri decorati con squadra e compasso e chi più ne ha più ne metta, sono i benvenuti coloro i quali possono portare un discreto e degno contributo, per questo nessuna discriminazione.

In quel periodo fu rinviata per l’ennesima volta la visita della Commissione Antimafia a Palermo su richiesta dei capigruppo della DC di Camera e Senato e il Presidente della commissione senza tener conto del parere del consiglio di Presidenza, né del fatto che molti si erano già recati nella città dell’incontro, stupendo e deludendo gli addetti ai lavori bloccò il tutto proprio qualche ora prima della partenza.Ma è l’articolo accanto che aggiunge rabbia e amarezza alla già spinosa questione. 

Contrada Garufo, Mazara del Vallo, al confine con Borgata Costiera, si trova ad essere la scena di una storia che sembra tratta proprio dalle scene finali di un film, dove il regista termina con lo stacco sui morti ammazzati. Il compimento di un omicidio che chiude una di quelle vicende che possono solo finire in un modo, ma non ci è dato sapere null’altro del film, né la trama, né i personaggi che vi hanno preso parte, conosciamo solo i protagonisti, Francesco Lentini, 41 anni e suo figlio Michele di 14.

Sono loro i protagonisti della scena finale, e sempre loro quella iniziale del nostro mistero (foto n.3 articolo su quotidiano La Stampa). Il ragazzo accompagna il padre in campagna per dargli una mano, condividendo lavoro, fatica e destino, l’unica certezza di questa vicenda è che i due sono morti a colpi di lupara, nel loro podere, già questo dà ai Carabinieri una direzione da seguire ma la strada delle indagini è senza uscita, il duplice omicidio non sarà mai risolto.

Il contributo del medico legale, prof. Del Carpio, lascia immaginare che il primo ad essere stato colpito è stato Francesco Lentini, in quanto presentava ferite al dorso, il figlio invece si era probabilmente voltato in seguito ricevendo i colpi frontalmente, su petto e addome.

Ma non avendo inormazioni sul rapporto che avevano con il killer o se erano più di uno, non possiamo dare per certa questa ricostruzione. Magari il ragazzo mentre lavorava si è trovato faccia a faccia con un uomo che puntava la lupara verso il padre ed è stato colpito a morte per primo per essere fermato e poi in seguito il padre colpito sulla schiena perché chino sul corpo morente del figlio. La fuga dell’assassino è stata frettolosa, non si è nemmeno accertato del decesso dell’uomo.

Francesco infatti è rimasto in vita ancora qualche istante, giusto il tempo di trascinarsi verso la stradina sterrata di confine con un altro podere, forse per un tentativo disperato di poter salvare se stesso e Michele. A volte accade che come nei film entra nella vita un elemento che sembra estraneo al luogo e al contesto, colui che compie quell’azione fuori dalla logica omertosa nel nostro caso, il destino ha voluto che in quel momento passasse di lì un ciclista, accortosi dell’uomo gli è andato incontro pensando di poterlo aiutare, ma le ferite erano talmente importanti che l’epilogo era incontrovertibile.

Ma la nostra è una terra dove le logiche cinematografiche e sociali si scontrano con quelle del silenzio, con la legge della sopravvivenza di chi resta, forse è questo il motivo per il quale Francesco ha mentito all’unica persona che poteva fungere da ancora di salvezza per la giustizia, forse per proteggere il resto della famiglia, ha riferito che è stato colpito da un ordigno esplosivo mentre era chino a lavorare sui campi, nessun cenno a lupare o altri uomini.

I carabinieri accorsi sul luogo all’alba dell’indomani non hanno trovato nulla che potesse far pensare ad un’esplosione diversa da quella dell’arma più in voga al tempo per mandare un certo tipo di messaggio, forse è anche stata messa in dubbio la veridicità del racconto del ciclista. Tuttavia i fatti, seppur avvolti nel mistero sono abbastanza chiari, l’omicidio dell’uomo ha un movente, quello del figlio è silenziatore, sarebbe più sconvolgente pensare il contrario.

Il silenzio che ha circondato il misfatto lo avvicina quasi certamente ad un delitto di stampo mafioso, prevaricazione per questioni di proprietà, “proposte che non si possono rifiutare” respinte, dominazione di territorio, rispetto non soddisfatto, il campo dei moventi si aggira intorno a queste tematiche, ma nulla dalla famiglia trapela, almeno verso gli inquirenti o gli organi di stampa, confinando ancora una volta nei “cold case” un triste episodio che ha visto stavolta spezzarsi una giovane vita nel fiore degli anni.

Il caso appena narrato, seppur lontano nel tempo, ci rimanda all’attualità ed in particolare alla rete di omertà, a più livelli (anche altissimi probabilmente), che oggi protegge la più che ventennale latitanza di Matteo Messina Denaro (in foto n.4 sua vecchia foto di carta d'identità). Nei giorni scorsi abbiamo riportato la notizia dell’arresto dei “postini” di Diabolik (il personaggio dei fumetti così tanto amato da colui che è considerato il capo dei capi di “cosa nostra”), coloro che garantivano le comunicazione fra il boss ed il territorio con la “vetusta” modalità dei pizzini.

Non è stato possibile –ci chiediamo- arrivare ad individuare, attraverso gli stessi “postini” il nascondiglio (o i nascondigli) di Messina Denaro? Non crediamo onestamente che lo stesso boss si sia servito, per i suoi variegati business, come messaggeri di personaggi, già noti mafiosi di vecchio stampo e sotto la sorveglianza delle forze dell’ordine (vedi ad esempio il mazarese Vito “Coffa” pregiudicato e già vicino al sodalizio di Toto Riina ai tempi delle stragi del ’92), probabile un depistaggio?

In questo contesto ci poniamo ancora tali interrogativi: davvero non si riesce a braccarlo? Lo Stato ha posto gli uomini ed i mezzi necessari per arrestarne la latitanza? Sarà arrestato al momento giusto, cioè quando servirà (furono così gli arresti di Riina ed altri superboss) e forse al momento la sua latitanza risulta "funzionale" al potere costituito per distogliere l'attenzione dalle grandi manovre politico-economiche stanno, pian piano, cambiando il volto del “Bel Paese”?.

Come per "Mafia Capitale" anche negli affari che girano attorno agli affari della rete di Matteo Messina Denaro, la droga, la prostituzione ed il classico pizzo hanno lasciato pian piano il posto ad altri "business" (energie rinnovabili, rifiuti, scommesse sportive ed immigrazione etc.) grazie ad una "sottile linea rossa" che travalica i confini della malavita e che si infiltra nei meandri delle istituzioni, ad ogni livello, attraverso la corruzione di politici e funzionari che poi si scoprono essere i veri manovratori delle associazioni di stampo mafioso.

Il "guado" fra mafia e politica è stato superato da decenni, e gli assassinii dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di moltissimi servitori dello Stato che avevano scoperto l'esistenza inequivocabile di tale legame non hanno, purtroppo, accelerato l'emersione di un fenomeno mafioso radicalizzato nelle istituzioni.

Eppure il mondo del cinema ha più volte denunciato il filo diretto fra politica e mafia, non ultimo ne “La Grande Bellezza”, premiato con l’Oscar come miglior film straniero due stagioni fa, il regista Paolo Sorrentino ritrae inquietante la figura di un latitante che vive indisturbato nel suo attico di fronte al Colosseo, personaggio al quale il regista da il nome di “Giulio Moneta”.

Dopo aver taciuto durante l’intera pellicola emergendo solamente come presenza sporadica e inquietante, all’atto dell’arresto (vedi foto n.1 della scena) ad opera della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) sulla stessa splendida terrazza con vista sul Colosseo, rivolgendosi al protagonista del film (Jep Gambardella, scrittore e giornalista splendidamente interpretato da Toni Servillo), l’anima nera pronuncia questa frase: “Io sono un uomo laborioso, uno che, mentre lei trascorre il tempo a far l’artista e a divertirsi con gli amici, fa andare avanti il paese. Io faccio andare avanti questo paese, ma molti ancora non l’hanno capito!”

Con un po’ di immaginazione facile cogliere il messaggio del regista napoletano attraverso una metafora dei faccendieri invisibili, quei “colletti bianchi” che utilizzano la corruzione come strumento e il dialogo con le mafie, vecchie e nuove, come mezzo per il perseguimento dei loro obiettivi.

Francesco MezzapelleRosa Maria Alfieri

16-08-2015 14,30

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