Violenza sulle donne, cultura subdolamente “machista” e aspetti del fenomeno ancora “staticamente invisibili”
“Un uomo che ti picchia la prima volta continuerà a farlo per sempre”. Voglio ripartire da questa frase che, seppur sentita più volte, continua a ritornare di tremenda attualità ogni qualvolta si presenta un caso di violenza ad una donna nell’ambito familiare. E’ vero, è difficile, quasi impossibile cambiare un’indole violenta. E non bastano il perdono, la convinzione che qualcosa possa cambiare nell’altra persona, prima o poi la violenza ritorna e spesso ancora più forte fino, talvolta, a conseguenze fatali.
A Mazara del Vallo, la cittadina nella quale risiedo ormai da circa 20 anni, negli ultimi cinque anni è stata scossa da due gravissimi casi di violenza familiare, alcuni dei quali sfociati in femminicidio. In merito ai “casi mazaresi” (ovviamente la questione è riferibile ad altri casi di femminicidio avvenuti nel contesto nazionale negli ultimi giorni) in molti si sono interrogati: si poteva evitare? La domanda è stata spesso accompagnata dalla “necessità” di trovare dei colpevoli, ben identificabili, al quale attribuire le responsabilità per quanto accaduto.
Così si chiamano in causa le leggi, le forze dell’ordine, i servizi sociali e perfino le autorità locali. Certamente servirebbe un rafforzamento del quadro normativo in tema di violenza (anche quella psicologica) subita dalle donne e maggiori fondi per il potenziamento delle reti di protezione (servizi sociali, centri e sportelli antiviolenza etc..), ma puntare il dito al fine dovere trovare a tutti i costi un “capro espiatorio”, oltre che rappresentare una vigliacca pratica di strumentalizzazione, allontana dalla radice del problema: la cultura maschilista dominante che imperversa in molti strati della società e che in maniera spesso subdola porta a minimizzare anche i casi, in apparenza, non temibili.
Quante donne, anche in contesti più abbienti, sono costrette loro malgrado ad accettare insulti, soprusi (anche tradimenti) e violenze quotidiane? E tutto ciò avviene spesso all’interno delle mura casalinghe, il silenzio all’esterno, la paura della denuncia a causa di una meschina mentalità, ancora purtroppo molto diffusa, che porta a considerare la “donna ribelle” distruttrice del “focolaio familiare”, oppure ancora peggio una “traditrice”; insomma avviene un naturale “ribaltamento della verità” spesso accompagnato dalle domande dopo un caso di violenza: “…chissà cosa avrà combinato Lei?” Quello che più ancor più triste e che a porsi quest’ultima domanda sono anche molte donne.
Non parliamo in generale di omicidi di donne, ma di “femminicidi” nel suo reale significato, quello fissato nel 1992 da Diana Russell nel libro “Femicide: The Politics of woman killing”: “una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna proprio perché donna. Quando parliamo di femminicidio quindi non stiamo semplicemente indicando che è morta una donna, ma che quella donna è morta per mano di un uomo in un contesto sociale che permette e avalla la violenza degli uomini contro le donne.” La realtà è comunque più complessa delle statistiche, e la “violenza” si dice in molti modi.
È sufficiente sintonizzarsi ogni mercoledì sera su Chi l’Ha Visto per farsi un’idea della “realtà delle famiglie italiane”. Ci sono donne che subiscono violenza e che non hanno la forza di denunciare.
In occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’ISTAT ha pubblicato l’indagine “La violenza contro le donne, dentro e fuori la famiglia”, offrendo una fotografia allarmante della situazione italiana. Circa 6 milioni e 400mila donne italiane tra i 16 e i 75 anni (31,9% del totale) hanno subito una forma di violenza fisica o sessuale. Le aggressioni fisiche colpiscono il 18,8% delle donne, quelle sessuali il 23,4%. Il 5,7% ha subito stupri o tentati stupri.
Il 26,5% delle violenze è perpetrato da persone vicine o conoscenti (parenti, amici, colleghi). Il 12,6% delle donne è stato vittima di violenza fisica o sessuale da parte di un partner o ex. A queste si aggiungono la violenza psicologica (17,9%) e la violenza economica (6,6%). Le giovani donne risultano essere particolarmente colpite, spesso da partner o ex partner, in relazioni dove proliferano dinamiche di controllo e manipolazione emotiva. Stereotipi e dipendenze relazionali contribuiscono a normalizzare comportamenti abusivi.
Inoltre, la violenza si manifesta sempre più attraverso i canali digitali (molestie online, diffusione non consensuale di immagini, minacce), rendendo urgente l’aggiornamento degli strumenti di prevenzione e tutela contro queste nuove forme di abuso online. La fragilità delle donne con disabilità: un’invisibilità statistica. L’indagine ha il merito di gettare luce sulla maggiore vulnerabilità delle donne con problemi di salute, disabilità o condizioni croniche. Queste donne, circa 6,5 milioni, subiscono violenze fisiche o sessuali in misura superiore alla media (36,1% contro il 31,9%).
Il rischio aumenta drammaticamente per chi dichiara di sentirsi male o molto male (38,8%) o per chi ha limitazioni gravi (39,4%). Nonostante queste informazioni, l’indagine ISTAT presenta un limite significativo: la mancanza di dati pienamente disaggregati per genere e disabilità. A spiegare tale “gap” è Silvia Cutrera, coordinatrice Gruppo donne FISH, la Federazione Italiana per i diritti delle persone con disabilità e famiglie costituita nel 1994 e alla quale aderiscono alcune tra le più rappresentative associazioni impegnate, a livello nazionale e locale, in politiche mirate all’inclusione sociale delle persone con differenti disabilità.
“Questa lacuna è ben più di un problema tecnico; è un nodo politico e sociale. Impedisce di comprendere la discriminazione multipla che colpisce le donne con disabilità, le quali sono esposte al rischio di violenza non solo dal partner ma anche in altri contesti di maggiore dipendenza. Fattori come la ridotta autonomia, le barriere sociali e la minore accessibilità ai servizi aumentano i fattori di rischio e rendono più difficile denunciare. Senza una raccolta strutturata che incroci in modo completo genere e disabilità, queste vittime rischiano di rimanere statisticamente invisibili.
Questo ostacola l’elaborazione di politiche pubbliche realmente inclusive, capaci di modellare interventi sui loro specifici bisogni. Per contrastare efficacemente la violenza di genere, non è sufficiente agire dopo che il danno è stato compiuto. La prevenzione è il vero fulcro di una strategia duratura, che deve agire sulle radici culturali, sociali e strutturali del fenomeno. Questo richiede un impegno su più fronti: Educazione al rispetto e al consenso fin dall’infanzia e in tutti i cicli scolastici; formazione continua per tutti gli operatori sociali, sanitari, educativi e delle forze dell’ordine; campagne di sensibilizzazione che smantellino stereotipi sessisti e rappresentazioni che normalizzano l’abuso; maggiore accessibilità ai servizi per le donne con disabilità o problemi di salute; prevenzione digitale per affrontare le nuove minacce online.
L’assenza di dati pienamente disaggregati per genere e disabilità –avverte infine Silvia Cutrera- è un ostacolo alla costruzione di analisi accurate e politiche efficaci. È necessario che la statistica pubblica sia in grado di raccontare tutte le donne, affiancando a un sistema statistico più inclusivo una politica di prevenzione forte e capillare. Solo così sarà possibile garantire che nessuna donna venga lasciata sola o invisibile in questa lotta”.
Nell’agosto 2019 è entrata in vigore la legge n. 69, il cosiddetto “Codice rosso”, che ha innovato e modificato la disciplina penale, sia sostanziale che processuale, della violenza domestica e di genere, corredandola di inasprimenti di sanzione. “Tra le novità – si legge – è previsto uno sprint per l’avvio del procedimento penale per alcuni reati: tra gli altri maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale, con l’effetto che saranno adottati più celermente eventuali provvedimenti di protezione delle vittime.
Al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, il giudice può aggiungere l’utilizzo di mezzi elettronici come l’ormai più che collaudato braccialetto elettronico. Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi viene ricompreso tra quelli che permettono l’applicazione di misure di prevenzione.” Sapete però cosa succede? Che questa nuova legge nazionale antiviolenza sulle donne, appunto il “Codice Rosso”, non sia però adeguatamente finanziata.
Eppure quanta propaganda, quanti convegni (anche nel corso della stessa “Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne”). Chissà…Forse i vari Governi che si sono succeduti in questi anni hanno avuto altre priorità? (in copertina foto di Rosamaria Ingargiola).
Francesco Mezzapelle